Il ritorno di Filip Latinovicz, il romanzo esistenzialista che incantò anche Sartre

La storia di un irresistibile antieroe sullo sfondo di una ex Jugoslavia fatta di fango e meschinità. Torna in libreria il volume di Miroslav Krleza per decenni fu ignorato in Italia ma omaggiato in tutto il mondo

Il 15 maggio del 1960 Jean-Paul Sartre, certo uno scrittore non cerimonioso con i colleghi, incontrò Miroslav Krleza all'Accademia jugoslava di Arti e Scienze a Zagabria, e non poté esimersi da uno strepitoso omaggio: «Il suo Filip Latinovicz, pubblicato sei anni prima del mio romanzo “La nausea”, se fosse stato tradotto in francese qualche anno prima, mi avrebbe provocato l'accusa di plagio. Perché Latinovicz è un vero romanzo esistenzialista che lei ha scritto prima e meglio di me».

 

“Il ritorno di Filip Latinovicz” è del 1932 e il ritardo nella traduzione che graziò Sartre è peccato veniale se la versione in francese e in quasi tutte le lingue europee non si fece attendere a lungo, salutato ovunque come un capolavoro. Quasi tutte le lingue, non l'italiano. Il fascismo autarchico prima (come dimenticare l'invito di Alberto Arbasino che ancora nel 1963 spronava a fare una “Gita a Chiasso” per acquistare volumi da noi sconosciuti a causa della atrofia culturale perdurante anche dopo la caduta del regime?) e l'indifferenza verso il Paese al nostro confine est poi, congiurarono a favore del prolungamento di un colpevole oblio, rotto solo dall'ostinazione del professor Silvio Ferrari che bussando di porta in porta, riuscì a portarlo alla luce nel 1983 (Studio Tesi), replicò con Zandonai (2009) senza tuttavia muovere una vasta curiosità per uno degli autori più importanti del Novecento. Ferrari, per nulla scoraggiato, ora ci riprova per la terza volta, la sua traduzione riveduta e corretta è appena andata in libreria per Bottega Errante (309 pagine, 17 euro), benemerita casa editrice di Udine impegnata anche per ragioni geografiche a recuperare quanto di buono ci eravamo persi del fecondo panorama letterario ex jugoslavo.

 

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Miroslav Krleza (Zagabria 1893-1981) scrive il testo che sarà inconsapevole precursore dell'esistenzialismo variante Sartre quando ha già fatto diversi giri sulla ruota della vita e della storia. Nato austroungarico, precoce allievo della rigidissima accademia militare di Budapest, tenta senza successo di passare sul fronte opposto per arruolarsi nell'esercito serbo in nome di una già formata idea panslavista e di fratellanza tra gli slavi del Sud. Dunque sotto i vessilli dell'impero è soldato nella Prima Guerra mondiale. Si appassiona alla Rivoluzione d'ottobre e aderisce al marxismo-leninismo, salvo distaccarsi dal bolscevismo dopo un soggiorno in Russia negli Anni Venti per l'ingerenza dei soviet nelle arti e nella letteratura: il carattere ribelle gli impedisce di accettare qualunque dogmatismo, qualunque asservimento della poetica alla dottrina politica.

 

Soprattutto Krleza, grazie a una voracità di sapere inesauribile, ha già compiuto molti viaggi in Europa, imparato diverse lingue per leggere in originale i massimi autori passati e contemporanei del Continente tanto da essere una stella di prima grandezza dei Balcani grazie a un produzione poliedrica e feconda. È contemporaneamente romanziere, poeta, drammaturgo, saggista, critico letterario. Se è refrattario a produrre opere “politiche” gli interessa farle “politicamente” per parafrasare Truffaut. È la situazione del suo Paese, diventato Regno dei serbi, croati, sloveni dopo la dissoluzione dell'Austria-Ungheria, ad angustiarlo. Nel 1926 scrive: «Ecco come stanno le cose. Viviamo in una stazione di provincia delle Ferrovie Austriache Meridionali, in una casa a un piano di mattoni rossi. Provincia. Nera, fangosa, infelice! E nulla è accaduto negli ultimi cinquanta anni: solo degli idioti che si trascinano in mezzo a queste brutture, sprofondando sempre più pigramente nella melma».

 

Sarà il paesaggio di “Latinovicz” e niente affatto uno sfondo ma vero co-protagonista del romanzo ambientato nella sua Pannonia che fu granaio di Roma, confine sud di un universo contadino che si estende fino alla Siberia. Dove la parola chiave è fango, non solo quello delle strade e dei campi ma anche il fango morale dove affonda un'aristocrazia giunta al culmine della sua decadenza, un'appendice morente dell'Impero defunto.

 

Filip Latinovicz è un pittore geniale o fallito, a seconda di opposti giudizi, che torna dopo ventitré anni nel suo villaggio, Kostanjevec, da dove era stato cacciato da un'enigmatica e spregiudicata madre quando, ancora brillante studente, le aveva rubato cento fiorini dilapidati in tre giorni e notti tra alcol e “donnine”. È alla ricerca di una riconciliazione, della verità su un padre defunto che sospetta non essere stato quello biologico e all'inseguimento di una vena artistica perduta. Trova la genitrice, di nome Regina, ossessionata dai profumi e dall'alta società, oltre che sempre accompagnata dall'amante, il dottor Silvius Liepach. Da quello che intuisce l'ultimo amante di una lunga serie, per quella che deve essere stata una doppia vita che la donna fa sempre più fatica a celare.

 

La delusione per un rapporto con la madre che fatica a ripartire, i dubbi crescenti sulla sua arte sono il sostrato della sua condizione psicologica quando incontra Bobocka, di nobili origini, due matrimoni alle spalle, la convivenza con un avvocato che per lei aveva dilapidato un patrimonio e indirettamente provocato il suicidio della moglie. Ne nasce una passione assoluta, febbrile, malata, ovviamente non esclusiva con quella donna che usa il sesso per ottenere ciò che vuole dagli uomini, la cui «bocca umida mormorava menzogne ardite e velenose come pura poesia». Niente spoiler sul precipitare finale, faremmo un torto agli eventuali futuri lettori del libro, in cui con i protagonisti sembra dissolversi un mondo superato dalla storia.

 

Benché riconosciuto come il più noto intellettuale e scrittore della sinistra nella Jugoslavia monarchica, dalla metà degli Anni Trenta in poi Krleza fu progressivamente ostracizzato dall'intellighenzia stalinista allora egemone. Tito, rientrato nel 1937 dall'Unione Sovietica, si risolse alla sua espulsione dal partito anche se mantenne un rapporto personale con lui che, oltre alla stima, contemplava anche la simpatia.

 

La riabilitazione avvenne dopo la rottura tra Tito e Stalin nel 1948 quando Krleza tornò ad essere figura di riferimento. Al Maresciallo jugoslavo dedicò un breve scritto “Il ritorno di Tito nel 1937” dove in qualche passo riecheggia la descrizione della Pannonia e dell'altro ritorno letterario, quello di Latinovicz: «Una nuova catastrofe internazionale si sta preparando, il gorilla fascista affila i suoi coltelli e da noi … Kupinec, Kaptol, Kumrovec (il luogo Natale dove Tito è tornato, n.d.r.) ancora ronfano, tutta la nostra intelligentzia piccolo-borghese ronfa, mentre Tito sta in mezzo a Kumrovec e sente questo vuoto, questo ritardo di dimensioni medievali, la dannazione di questa notte di Kumrovec, con i cani che abbaiano in un posto completamente immobile e dannato come sempre».

 

Miroslav Krleza morirà nel 1981, dieci anni prima dell'implosione della Jugoslavia. Nella Croazia indipendente del sovranista Franjo Tudjman lo considereranno un traditore, le sue opere cancellate dai programmi scolastici. Ora un lento recupero. Il destino di un uomo che per essere libero nella sua arte ha dovuto subire la messa all'indice prima in nome del comunismo e poi in nome del nazionalismo.

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