Lo dice lui: "Sono un passionale, un emotivo, un istintivo e ancora oggi un sessantottino...". E allora possiamo dirlo anche noi: Michele Placido ha un animo romantico. O perlomeno romantico quanto gli anni Settanta: ultimi bagliori di romanticismo che disegnavano eroi e nemici pubblici, utopie e distopie, malavitosi belli e dannati e volti intensi di giovani ansiosi di cambiare il mondo. è il nostro passato prossimo che a scuola non si studia mai.
E allora Placido, per tutti i giovani del XXI secolo, il passato prossimo lo porta sullo schermo con le sue luci e le sue ombre. Anzi, più ombre: fino a raggiungere la perfezione del noir. Così fu "Romanzo criminale", la banda della Magliana e il lancio nello star system della meglio gioventù del cinema italiano. C'erano tutti, con nomi e soprannomi: Kim Rossi Stuart, il Freddo; Pierfrancesco Favino, Libano; Claudio Santamaria, il Dandi; Riccardo Scamarcio, il Nero; Elio Germano, il Sorcio; più Accorsi che faceva il commissario Scialoja. Poi nel 2009 è "Il Grande Sogno" e Placido non fa mistero che Scamarcio poliziotto è proprio lui a vent'anni, quando prima di gettare la divisa alle ortiche e iscriversi all'Accademia d'arte drammatica, durante gli scontri di Valle Giulia, stava dalla parte dello Stato contro gli studenti.
Ora a concludere la trilogia arriva "Vallanzasca - Gli angeli del male" tratto dal libro di Carlo Bonini, nelle sale il 17 dicembre e fuori concorso al Festival di Venezia. "Scelta strategica, prudente o forse etica", spiega Placido: "Ci siamo chiesti: che succede se vinciamo un premio? E opportuna la glorificazione di un criminale? E già vedevamo le proteste dei familiari delle vittime, le polemiche, le dichiarazioni di Brunetta, insomma tutta roba che fa male al film. Perché è di un film che stiamo parlando". Il plurale comprende i produttori, ovvero la Cosmos di Elide Melli e la20th Century Fox, reduce da "Avatar", che da dieci anni non metteva un dollaro su un film italiano. A "Vallanzasca" invece ha creduto e anche generosamente a giudicare dalle ricostruzioni, dalle location, dai costumi vintage, dalla quantità di comparse, macchine e scontri a fuoco. Per questo il "fuori concorso" è un peccato per la gloria patria.
Con Quentin Tarantino presidente di giuria avrebbe avuto parecchie chance, questa storia estrema del brigante anarchico e sanguinario, metà film noir e metà film carcerario. Ma soprattutto un'opera rock molto anni Settanta: trascinante, muscolare e tesa come un colpo di fucile (è proprio il caso di dirlo) sulle musiche dei Negramaro e sul volto delicato e vibratile di uno straordinario Kim Rossi Stuart. Uguale al bel René pur non somigliandogli per niente. Miracoli d'attore. E di regista che sa dirigerli. Come fa un attore a dirigere un altro attore, signor Placido? "Ma lo sa che i registi che ci dirigono al meglio sono tutti attori mancati? Marco Bellocchio per esempio, voleva far l'attore, ha fatto il regista e lo ringrazio. Marco mi ha formato con il suo rigore, mi ha fatto capire l'etica di questo mestiere, l'importanza di un cinema morale oltre che civile".
La lezione del cinema civile invece gli arriva da lontano, da Petri, Rosi e soprattutto Damiano Damiani, "grande perché convinto che il cinema è arte per gente semplice". E poi dall'esempio di Gian Maria Volonté: "Altro che Mastroianni, la figura di Gian Maria ha pesato più di tutti. Lui conosceva l'etica del mestiere. Rinunciò a fare "Metti una sera a cena" con Patroni Griffi per problemi politici e produttivi. Così scelse "La classe operaia va in paradiso" finendo in tribunale per inadempienze contrattuali. Oggi è tutto più confuso, perfino Nanni Moretti è andato a ritirare 12 Ciak d'oro per "Il Caimano". Un trionfo tributato da una rivista di Berlusconi per un film contro Berlusconi e il regista in mezzo alla festa". Anche lei, Placido è finito in mezzo alla polemica per "Il Grande sogno", il film sul Sessantotto prodotto da Valsecchi e Medusa: e s'infuriò a Venezia quando i giornalisti glielo fecero notare... "Ma nessuno stava parlando del film! Così mi sono arrabbiato e ho pure detto che Berlusconi non l'ho mai votato né lo voterei mai. Risultato: ho rotto con tutti. Medusa e Pietro Valsecchi con cui lavoravo da una vita. Ma sa che le dico? Sono contento. E più libero. Libero di guardare la televisione rimanere impressionato da un'immagine e decidere di far partire un progetto, e non solo per un film".
Così accadde nel 2007 dopo la strage di 'ndrangheta a Duisburg e un tg che riprendeva gli abitanti del paesino calabrese di San Luca da cui provenivano gli sciagurati gangster autori della mattanza. Ma non fu il regolamento di conti fra cosche e la strage nella pizzeria, a colpire l'immaginazione di Placido. Piuttosto quei ragazzi di paese che si nascondevano alle telecamere per non rispondere ai giornalisti :"Li conoscevate i fratelli Pergola? Perché erano andati a lavorare in Germania?". Occhi bassi e silenzio. Per questo silenzio Placido partì per San Luca. "Mi ero inquietato. Pensai che qualcosa bisognava pur fare per dare un futuro a quei ragazzi. E non essendo né poliziotto né magistrato, non mi rimaneva che fondare una scuola di teatro". Lo ha fatto. La scuola c'è e i ragazzi vanno pure in tournée.
Poi capita che tra le mani gli arriva un libro "Storia di un giudice. Nel Farwest della 'ndrangheta", scritto da un vero magistrato, Francesco Cascini, di stanza a Locri. E allora la Calabria cresce nella sua mente e prende forma di film. Il prossimo, dopo "Vallanzasca" e prima di dar seguito a progetti importanti come portare sullo schermo due thrilleroni: "Io uccido" di Giorgio Faletti e "Miserere" di Jean-Christophe Grangé (il giallista di "Fiumi di porpora"), bestseller francese pronto a diventare blockbuster con budget da 15 milioni di euro. "Ormai vengo visto come un maestro del noir. Va bene, sono contento, ma non è proprio e solo noir quello che faccio".
Ha ragione Placido: "Vallanzasca" non è solo un noir. Va oltre il genere. Come oltre il genere sono anche i due lunghi capitoli di "Nemico pubblico" che raccontavano con la faccia di Vincent Cassel il bandito Jacques Mesrine, o le cinque ore che un impegnato cineasta quale Olivier Assayas ha dedicato al terrorista Carlos e che i selezionatori di Cannes non sapevano neanche in quale sezione mettere. Oltre il genere è il racconto di questo passato non tanto lontano che eredita il neorealismo e lo trasforma in altro: un cinema più avvolgente, dinamico, epico. Un super-realismo o neo-neorealismo al passo coi tempi che trasforma la Storia in romanzo: un po' come nel Novecento quei nonni che erano andati in guerra la raccontavano ai nipoti. Questo è "Vallanzasca", più che bandito uno spirito libero finito nelle pieghe più oscure dei suoi tempi. Uno che rubava alle banche e considerava ogni omicidio un fallimento. Uno che si addossava anche le colpe dei complici, perché così fa un capo. Uno che si fa prendere dopo l'ennesima fuga "perché non c'è più la malavita, ma solo criminali che ammazzano vecchiette per rubare la pensione". Uno che agli occhi di Placido è anche l'immagine stessa dell'espiazione, col corpo torturato e autoflagellato fino al martirio. Uno che il volto di Kim Rossi Stuart rende fragile e pazzo, generoso e tetro, euforico e disperato, esaltato e arrogante, ma mai meschino. Uno che in fondo è l'immagine stessa di quegli anni Settanta che chiusero spiritualmente un secolo altrettanto disperato, cupo, esaltato. E altrettanto romantico.
Cultura
6 settembre, 2010'Non è soltanto un bandito, ma il simbolo di un periodo della nostra storia'. Parla Michele Placido, regista del film su Vallanzasca che uscirà a dicembre ma ha già scatenato un aspro dibattito
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