L'ultimo film di Danny Boyle, "127 ore" è la storia ansiogena di un giovane sportivo che rimane incastrato a un macigno nel Grand Canyon. E la sua lotta con il destino ci parla dei nostri abissi

Ciak, che angoscia

Danny Boyle fa cinema come il suo Aron (James Franco) porta la propria mountain bike fra i rovi del Canyonlands National Park, nello Utah, o come corre scavalcando abissi. Quella narrata in "127 ore" ("127 Hours") è una storia vera. Sceneggiato anche da Simon Beaufoy, il film è tratto da un libro autobiografico di Aron Ralston. Nel 2003, Ralston rimane bloccato per cinque giorni in un crepaccio. Con la mano presa fra la roccia e un macigno che s'è smosso, sembra non gli resti che attendere la morte. Non ha detto a nessuno, neppure alla madre, dove sarebbe andato. Oggi Ralston ha una protesi al braccio destro, e ancora scala montagne e corre in bicicletta.

Questa è la storia vera, estrema e cruda. E Boyle ne fa un film estremo e crudo, le cui immagini obbligano anche noi a scavalcare abissi, ma d'angoscia. E però non c'è compiacimento, non c'è voyeurismo della carne lacerata, nelle inquadrature che la regia tiene addosso ad Aron e al masso che lo incatena. Dopo un prologo breve che mostra una spiaggia densa d'umanità, il film si apre alla vastità e alla solitudine del Canyonlands. Aron lo percorre saltando di roccia in roccia, e beandosi del rischio. È giovane, è allenato, è felice di stare fronte a fronte con la potenza silenziosa d'un ambiente sovraumano. Sulla sua strada incontra un paio di ragazze, che si lasciano incuriosire dalla sua debordante, gentile vitalità. Sotto il cielo blu dell'estate, la vita è in trionfo.

Poi, d'un tratto, tutto si ferma. Nell'indifferenza della pietra, Aron è un trascurabile piccolo uomo. A niente gli serve l'improntitudine con cui ha sfidato l'immensità del canyon. All'inizio quasi se ne stupisce, appeso alla roccia con quella sua mano che non è più sua. Poi tenta di liberarsi. È ingegnere, e con le corde da rocciatore prova a far delle pulegge, e a spostarlo, quel macigno testardo. Intanto le ore passano, passano i giorni. Niente muta. Tutto quello che gli riesce è riprendere con una piccola telecamera la sua agonia. Lo stesso fa Boyle, che gli sta addosso con la macchina da presa come se anch'egli fosse lì, e come se noi ci fossimo con lui.

Alla fine l'alternativa è netta, e atroce. Impotente di fronte alla pietra, il piccolo uomo può rivolgere se stesso contro se stesso. Oppure può morire. Disperato eppur vitale, Aron sceglie. Prende un coltello ormai spuntato, si lega stretto un laccio attorno al braccio, e torna libero. Quanto a noi in platea, scavalchiamo abissi che non sono di roccia, ma che ne hanno la durezza.

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