Venti minuti al giorno di attività fisica combattono il diabete meglio di tutte le medicine. Lo ha scoperto un pool di ricercatori americani. E l'idea di usare lo sport al posto delle pillole si sta facendo strada anche per altre malattie. Per il terrore di 'Big Pharma'
Per vincere il diabete, non bastano dieta e farmaci. Ci vuole movimento, almeno 150 minuti di esercizio fisico intenso a settimana, che non deve essere concentrato in un'unica seduta, ma andrebbe fatto almeno tre volte a settimana, comunque senza che passino più di due giorni senza che si vada in palestra, in piscina o nei parchi cittadini. Ancora. Non basta la semplice corsetta a passo lento o magari la nuotata in tutto relax, ma occorre associare alla classica attività aerobica, cioè con consumo d'ossigeno, anche qualche momento di sforzo più vigoroso e intenso visto che gli studi più recenti hanno mostrato l'utilità di questa combinazione di fattori. A definire modi e tempi del regolare esercizio fisico per chi soffre di diabete sono i nove esperti che hanno stilato le nuove linee guida messe a punto dall'American Diabetes Association insieme all'American College of Sports Medicine. Dagli esperti d'oltreoceano arriva anche un monito assai duro per i medici, spesso non troppo sensibili ai vantaggi del movimento. "Troppi sanitari non hanno voglia di prescrivere l'esercizio fisico alle persone con diabete di tipo 2, magari perché ne temono possibili effetti indesiderati", annota Sheri R. Colberg, coordinatore del gruppo di studiosi. A frenarli sono soprattutto l'eccesso di peso, particolarmente comune nei diabetici adulti, e la presenza di condizioni di salute potenzialmente a rischio.
Tuttavia, continua lo scienziato americano, "la maggior parte dei pazienti può fare attività fisica in tutta sicurezza ovviamente a patto che vengano prese le necessarie precauzioni. Nemmeno la presenza delle classiche complicazioni del diabete può diventare una scusa per evitare la regolare attività fisica dei pazienti". I benefici di questo approccio non farmacologico, sottolineano le linee guida, sono certi, a patto che si studi quale tipo e quale intensità di sforzo siano indicati per il paziente, e questo è del tutto fattibile grazie a esami mirati come l'elettrocardiogramma sotto sforzo.
Se ci si muove regolarmente si migliora la sensibilità all'insulina, l'ormone che ha il compito di tamponare l'eccesso di glicemia, e aumentano le opportunità di difendersi dalle varie condizioni che spesso si alleano con lo stesso diabete. Col risultato che chi si muove ha meno probabilità di morire di un evento cardiovascolare, giacché vede migliorare il quadro dei lipidi nel sangue con l'aumento dei livelli del colesterolo Hdl, quello ad azione protettiva dei vasi, e la diminuzione delle Ldl che favoriscono l'aterosclerosi.
Questo hanno stabilito anni e anni di studi. E non è una questione di poco conto visto che, secondo le previsioni dei Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie (Cdc) americani, nel 2050 un adulto su tre sarà diabetico nei paesi occidentali. E che, per colpa di questo trend, nel giro di dieci anni i costi per il diabete vero e proprio e per la condizione che viene considerata l'anticamera della malattia, il cosiddetto prediabete, saranno di almeno 500 miliardi di dollari l'anno nei soli Stati Uniti. Un fenomeno di portata tale da far saltare qualsiasi budget sanitario.
"Se non si modifica questa tendenza, saremo di fronte a un destino drammatico, fatto di aumento dei costi per la sanità e di una drastica riduzione dell'aspettativa e della qualità della vita, legate alle complicazioni del diabete, come le patologie cardiache o l'insufficienza renale", precisa Colberg: "Come persone, come comunità e come parte del mondo dobbiamo quindi lavorare insieme per fermare il diabete prima che la malattia fermi noi".
Così dicendo Colberg parla anche a noi. In Italia, infatti, secondo i dati del Rapporto nazionale sulla qualità dell'assistenza dei centri di diabetologia redatto dall'Associazione medici diabetologi, ci sono almeno tre milioni di persone con diabete, cui bisogna aggiungere almeno un altro milione di persone che non sa di avere la glicemia oltre i limiti. Ma soprattutto allarma il fatto che quasi una persona con diabete su cinque ha meno di 55 anni. E che la stragrande maggioranza di questi malati (il 91,9 per cento) soffre di diabete di tipo 2, quello che compare negli adulti ed è principalmente causato da cattiva alimentazione, sovrappeso e sedentarietà. Così, al peggiorare degli stili di vita si accompagna una crescita della patologia e dei consumi di farmaci, come dimostrano i dati dell'Osmed (l'Osservatorio sui farmaci del ministero della Salute): tra il 2000 e il 2009 l'aumento della prescrizione di principi attivi per la cura della malattia è stato di circa il 4 per cento ogni anno. E nel 2010 si è registrato un ulteriore incremento della prescrizione di ipoglicemizzanti orali.
Eppure basterebbe poco "movimento guidato" per modificare positivamente questo trend. La dimostrazione viene da uno studio condotto a Perugia, nell'ambito dell'attività del Centro universitario ricerca interdipartimentale attività motoria (Curiamo) diretto da Pierpaolo De Feo. L'attività si basa su un approccio interdisciplinare, che prevede la presenza dell'endocrinologo, del pediatra, dello specialista in scienza dell'alimentazione e in medicina dello sport, dello psicologo, del laureato in scienze motorie ed altri esperti. Sono previste sessioni di lavoro in palestra ed escursioni di gruppo. "Le nostre rilevazioni su 90 persone con diabete di tipo 2, che hanno seguito 22 sedute in palestra, hanno registrato mediamente un calo di circa due chili di peso, di quasi 3 centimetri del girovita, della pressione massima e della minima, e della glicemia a digiuno che è passata mediamente da 144 a 133", racconta De Feo. Che spiega come queste modificazioni si sono realizzate con una perdita della massa grassa e un leggero incremento della massa muscolare e, soprattutto, che i pazienti inseriti nel programma hanno visto diminuire anche la temibile emoglobina glicosilata, il parametro che misura l'evoluzione della glicemia nel tempo perché definisce la quantità di glucosio nei globuli rossi.
Non è tutto. Le persone che hanno svolto attività fisica hanno migliorato la capacità aerobica: la velocità nella normale camminata è passata da 4,09 chilometri l'ora a 5,47. E l'andatura è un indicatore forte dell'invecchiamento, tanto che la capacità di tenere una buona velocità di passo può essere correlata con la sopravvivenza.
L'esperienza di Perugia ha poi un'altra importante conseguenza: sul fronte economico con questo stile di vita dopo solo tre mesi si riduce del 10 per cento la spesa per farmaci grazie al calo del consumo di anti-diabetici e anti-ipertensivi. E lo dimostra il fatto che ogni anno a Curiamo circa 400 persone con obesità e diabete cambiano stile di vita, mentre l'intera operazione costa alla Regione Umbria 190 mila euro l'anno. Ciò significa che migliorare lo stile di vita di una persona che tipicamente ha un elevato rischio cardiovascolare costa meno di 500 euro. "Si tratta di un ottimo investimento economico e stiamo lavorando per produrre dati di costo-efficacia e costo-utilità dell'intervento", commenta De Feo.
Questi risultati confermano sul campo quanto emerso da uno studio condotto sempre dai ricercatori di Perugia qualche tempo fa, che ha dimostrato che camminare per 4-5 chilometri al giorno tutti i giorni o andare regolarmente in bicicletta significa diminuire la pressione arteriosa di 10 millimetri di mercurio, la circonferenza vita di 4,5 centimetri, il peso di tre chili, la glicemia del 20 per cento, i grassi nel sangue del 30. Di conseguenza il rischio di infarto viene ridotto del 15 per cento e il rischio coronarico del 2,2.
Anche in Italia, paese di sportivi da salotto piuttosto che da campo, un incremento dell'attività fisica nei pazienti potrebbe consentire non solo di controllare meglio i valori di glicemia, ma anche di contribuire a ridurre la spesa. Basta convincere gli italiani a muoversi, visto che, secondo l'Istat, la percentuale di persone totalmente sedentarie nel nostro Paese varia dal 30 a quasi il 60 per cento con un chiaro gradiente Nord-Sud. Peccato, giacché, conclude De Feo, "oltre ai vantaggi sul metabolismo, nei pazienti migliorano il comportamento alimentare, perché le emozioni vengono gestite senza dover ricorrere al cibo, e la tendenza alla depressione. Di fatto, migliora tutta la qualità di vita del singolo paziente".