Tegole e antenne. Cupole e gabbiani. Uomini e topi. I disegni di Franco Bevilacqua, oggi raccolti in un volume, raccontano splendori e miserie della Capitale vista a bassa quota

Roma? Lei vuol conoscere Roma?», chiese un giorno Leo Longanesi a Giovanni Ansaldo: «Voli sopra di essa alla quota più bassa possibile, in modo da vedere bene i tetti. Vedrà in quale condizione sono, anche quelli di edifici famosi, e con le facciate a posto. Da questo capirà l’umore della città. Tutto ciò che non si vede, che non è in mostra, è lasciato andare alla malora».

Saranno passati almeno sessant’anni, la malora ha senz’altro proseguito il suo corso, ma l’opera, anzi le opere di Franco Bevilacqua - “I tetti di Roma raccontano” (con introduzione di Valerio Magrelli, edizioni arte’m, 191 pagine, 40 euro) - prolungano e insieme alleggeriscono lo scetticismo acuto e lungimirante di Longanesi, pure confermando che da lassù, dove l’artista si è arrampicato ed appollaiato con un foglio in bianco e una matita, ecco, lassù è tutto straordinariamente bello, però pure abbastanza zozzo e pieno di magagne.

Anni orsono a cento metri dalla sommità del Pantheon la presidenza del Senato, nientemeno, forse ingelosita, forse ingolosita dal roof-garden istituzionale di Palazzo San Macuto, progettò un gazebone per dare sollazzo agli illustri frequentatori della biblioteca di Palazzo Madama. Poi il progetto venne accantonato e la struttura distrutta, ma ce ne volle.
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Strane cose accadono in cima ai palazzi della città proibita. Si ricorderà come non molto tempo fa il tetto di Montecitorio fu occupato da un drappello di grillini con i sacchi a pelo. Prima di organizzare il bivacco non lontano dalle finestre della Commissione Esteri, tra uno scatto e l’altro postato su Twitter, calarono sulla facciata del Bernini alcuni striscioni.

Le scalate dell’artista Bevilacqua restituiscono visioni oniriche, ma almeno pacifiche, mentre quelle dei leader dell’opposizione che nel 2010 presero a salire al vertice di diversi palazzi restano nella memoria come un sogno selvaggio; non s’è mai capito bene per quale scopo furono allestite, se per far notizia, o per solidarietà, fatto sta che Bersani e altri venivano tirati su per le braccia, e opportunamente fotografati, òp, òp, attenzione, ci siamo. Ma pazienza, Roma è Roma, e tra comignoli, grondaie, ombrelloni, altane, guglie e campanili la Città Eterna riluce di uno splendore ancora più imprevedibile; e la vita qui, la distesa sublime delle tegole, così come l’inverecondia anodizzata delle verande abusive, le candide padellone televisive come i chiostri umidi e deserti segnalano la lieta e lieve ambiguità dell’esistenza, dando energia alle immagini di questo libro.
Franco Bevilacqua su un tetto di Roma

Le sciabolate di luce sui palazzi d’autunno riscattano del resto la naturale ostilità che l’Urbe nutre per i suoi stessi abitanti. Basta quel groviglio virtuoso di linee sospese e di storia aerea a ripagarli, basta quel miscuglione di colori, quel mosaico di forme, bastano le cupole e le guglie, gli agrumi sospesi e le palme indistinte, la fuga dei platani nello scirocco, la poesia dei cipressi, e tutti quegli omini laggiù. E l’acqua del fiume che gioca con le ombre. Roma, insomma, più Roma di così si muore.

Ma poi, anche, che oscurità! Anch’essa consente al cielo di prendersi la rivincita sugli sfiatatoi, i condizionatori pericolanti, i tubi a serpentone, le antenne di plastica e ruggine tipo croci uncinate. Cortiletti bui, cortilacci pisciosi, lo sfascio e le crepe che ne promettono di ulteriore. I gatti e i sorci, le cornacchie vili e invasive, i piccioni alla salmonella, i gabbiani grossi come polli che di notte spaventano i bambini, la merda stagionale degli storni e gli ululati elettrici per cacciarli via dal quel paradiso sospeso nel tempo.

Da quel mondo superiore che solo dall’alto si riesce a rincorrere nella meraviglia, nei suoi pieni, nei suoi vuoti, nelle sue perenni salite verso la felicità e nello scapicollo del suo più basso contrario.