Ispirato alla biografia di Dave Van Ronk, e colmo d’amore per la musica folk degli anni fra i Cinquanta e i Sessanta, il film di Ethan e Joel Coen è costruito come un cerchio. In qualche modo, nella breve avventura di Llewyn tutto torna su se stesso. Così accade, per esempio, in un racconto nel racconto che i due fratelli dedicano a un bel gatto fulvo. Ospite di una coppia di amici, Llewyn se lo perde per le strade di New York, lo rintraccia e lo riperde (ma la storia è più complicata). Alla fine, il gatto ricompare nella casa di quella stessa coppia. Ci è tornato da solo. Il suo nome è Ulisse.
Come l’eroe omerico, anche il giovane musicista compie la propria odissea.
La meta del suo viaggio da un locale all’altro del Village - e anche verso Chicago, in compagnia di Roland Turner, un orrido “ciclope” che ha la stazza di John Goodman - è insieme prosaica e utopica. Da un lato, Llewyn cerca qualche dollaro per sopravvivere. Dall’altro, insegue la perfezione artistica.
Figlio di un vecchio marinaio, e marinaio egli stesso, è certo che la vita non debba esser perduta sognando inutilmente di scovare branchi di aringhe, per poi finire in un ospizio, inebetito e in attesa di morire. L’alternativa, se c’è, è l’autenticità che immagina di trovare nella musica. Questa è o dovrebbe essere la meta ultima della sua odissea. Ma non c’è, quella perfezione. O se c’è appartiene ad altri (da lì a poco nel Village trionferà Bob Dylan). Quanto a lui, si trova a metà strada fra chi accetta di vivere una vita che si perderà nel nulla, e chi riesce a raggiungerlo, il branco di aringhe. La sua posizione è la più scomoda. I primi non sanno come finirà. I secondi si consolano con quello che hanno raggiunto.

Lui sa di non avere niente, e che niente avrà. La sua odissea non va da nessuna parte. Torna da dov’è partita, come quella del gatto Ulisse. Tutto ciò che gli resta è un energumeno che lo picchia, e la sua chitarra per cantare “Hang me.” La canzone è vecchia come tutte le canzoni folk, ma non smette d’avere senso