Red carpet bagnato, red carpet fortunato. Sicuramente per Paolo Sorrentino che, baciato dal sole riapparso dopo quattro giorni di pioggia sulla Hollywood Boulevard del Dolby Theatre di Los Angeles a poche ore dalla consegna degli Oscar, ha mantenuto la sua promessa.
Con “La grande bellezza”, infatti, il regista napoletano riporta in Italia l’ambito premio come miglior film straniero, dopo quindici anni da “La vita è bella” di Roberto Benigni e dopo otto anni dall’ultima nomination italiana de “La bestia nel cuore” di Cristina Comencini.
Un premio annunciato, quello di Sorrentino. Non solo dal favore di critica riscosso dal film all’estero già durante il Festival di Cannes, dal quale però era tornato a casa a mani vuote, ma soprattutto dalla tripletta di premi conseguita nei mesi scorsi, guadagnandosi il Golden Globe, il Bafta e ben quattro European Film Award. Senza contare l’efficacia della campagna promozionale che ha accompagnato “La grande bellezza” nel suo viaggio verso l’Oscar.
Un premio annunciato, peraltro, già dalla musica di “Nuovo Cinema Paradiso” scelta per accompagnare i due attori Viola Davis e Ewan McGregor incaricati di lanciare la cinquina dei film non in lingua inglese candidati come migliore pellicola straniera, prima di proclamare vincitore “La grande bellezza”. Sul palco a ritirare la prestigiosa statuetta un raggiante Toni Servillo e il produttore Nicola Giuliano al fianco di Paolo Sorrentino, che ha dedicato il premio alla sua famiglia e all’intera squadra, ma anche alle sue fonti di ispirazione «i Talking Heads, Fellini, Martin Scorsese e Maradona, oltre che a Napoli e a Roma».
Vince così un film che, almeno in Italia, aveva spaccato in due critica e pubblico. Mettendo, da una parte, chi dalla pellicola è rimasto folgorato e, dall’altra, chi proprio non è riuscito ad amarla. Non per mancanza di qualità cinematografiche, indiscutibili come sono indiscutibili l’abilità registica di Paolo Sorrentino e la bravura di Toni Servillo nell’incarnare la maschera del giornalista Jep Gambardella. Quanto piuttosto per il tono compiaciuto e pedante e per alcune debolezze di sceneggiatura, evidenti soprattutto nella parte finale del film incentrata sulla figura rugosa e sdentata della Santa. Con un risultato d’insieme che fa rimpiangere la mancata corsa agli Oscar del precedente “This must be the place”, attraversato da una potenza visiva e musicale lacerante, e che trova la spiegazione del successo americano anche nel cameo poco edificante che dedica nel suo “The wolf of Wall Strett” all’Italia il maestro Martin Scorsese – vero grande deluso di questa edizione degli Oscar, da cui il suo “Lupo” torna a casa a mani vuote nonostante le cinque nomination, così come “American Hustle” di David O. Russell nonostante le dieci candidature.
Perplessità a parte, tuttavia, resta il merito de “La grande bellezza” di avere riacceso i riflettori sul cinema italiano anche in patria, non solo Oltreoceano, dove peraltro sono già in programma numerose attività promozionali di rilancio della cinematografia nostrana, attraverso film storici e pellicole più recenti.
Ma se per il miglior film straniero si può dire che non ci sia quasi stata gara, all’interno di una cinquina in cui Sorrentino era dato per vincitore assoluto, lo stesso non può dirsi per le altre categorie, in cui la competizione era altissima grazie ad un’annata cinematografica molto felice. Sebbene i pronostici siano stati tutti confermati senza grandi sorprese, nel corso di una serata-evento affidata all’ironia di una padrona di casa, Ellen DeGeneres, che se ne andava gironzolando più in platea che sul palco, per distribuire “gratta e vinci” di consolazione ai non vincitori e fette di pizza alle celebrities in sala vestite da gran sera, sua maestà Maryl Streep in prima fila.
L’Oscar per la migliore regia è andato, dunque, al favorito Alfonso Cuarón per “Gravity”, che su dieci nomination raccoglie altri sei premi tutti nelle categorie tecniche più prestigiose (effetti speciali, fotografia, montaggio, sonoro, montaggio del suono, colonna sonora). A conferma dell’abilità con cui il regista messicano è riuscito a creare un mondo cinematograficamente nuovo per lo spettatore, sintonizzandone il respiro e il battito con quelli della protagonista Sandra Bullock e risucchiandolo nel vortice emotivo di una donna dispersa nella meraviglia spaventosa dello spazio.
Il premio per il miglior film, invece, è andato come da copione a “12 anni schiavo” di Steve McQueen, nove nomination e tre Oscar all’attivo, con quello per la migliore sceneggiatura non originale e quello a Lupita Nyong’o come migliore attrice non protagonista, che ha dedicato il premio a tutti i bambini con un messaggio di speranza: «non importa da dove venite, i vostri sogni possono realizzarsi».
Confermati anche i premi, meritatissimi, a Cate Blanchett come migliore attrice protagonista per la sua indimenticabile performance in “Blue Jasmine” di Woody Allen, e a Matthew McConaughey e Jared Leto, rispettivamente migliore attore protagonista e non protagonista per Dallas Buyers Club di Jean-Marc Vallée, tre premi (compreso miglior trucco) su sei nomination per un film indipendente che si scolpisce nel cuore dello spettatore schierando in campo una coppia di assi, imbattibili insieme, e che porta dentro di sé un tocco di Italia nella colonna sonora con il brano “Mexican Mariachi” del compositore lucano Federico Ferrandina.
Insieme a quello di Lupita e a quello del regista McQueen che si è rivolto «a tutti gli schiavi che ancora esistono e soffrono», si devono peraltro proprio a Matthew e Jared due dei discorsi di ringraziamento più emozionanti, dedicato il primo anche a Dio, «il mio modello – ha detto McConaughey – l’esempio che mi ha mostrato come sia un fatto scientifico che la gratitudine prima o poi ripaga», e l’altro di Leto dedicato all’Ucraina e al Venezuela e a tutte le persone che hanno perso la battaglia contro l’Aids.
Di questa 86ª edizione degli Academy Awards dedicata agli “eroi” restano, dunque, tanti bellissimi film, tra cui meritano almeno una menzione l’umore in bianco e nero di Nebraska, diretto da Alexander Payne (sei nomination, una ciascuno per la magnifica coppia Bruce Dern e June Squibb), e la magia di Her del visionario Spike Jonze (cinque candidature e un Oscar per la migliore sceneggiatura originale).
Senza dimenticare la coincidenza forse più curiosa dell’intera cerimonia, e cioè che quasi tutti i protagonisti maschili, da Leonardo di Caprio e Jonah Hill a Matthew McConaughey e Jared Leto, hanno portato con sé anche le rispettive mamme. Molte ricordate anche da altri artisti nei discorsi di ringraziamento, eroine anche loro in mezzo a tante star.