Che mondo è quello in cui non si può dire “puttana”? Il grande regista si scaglia contro il perbenismo imperante. Partendo dal suo film sadomaso. "Non mi interessa quello che il pubblico vuole, giro le storie che piacciono a me"

Roman Polanski: "La mia battaglia contro i neo puritani"

Roman Polanski è sorridente. Ed è un sollievo. L’ultima volta che ci siamo incontrati - più o meno all’epoca in cui girava il suo thriller satanico “La nona porta” - gli avevo chiesto della sua “famigerata” reputazione e ci mancò poco che perdesse del tutto le staffe. «Che razza di domande mi fa?», ringhiò. «Cosa significa “famigerata”? Lei si fa prendere in giro dai media. E io voglio essere famoso per il mio lavoro, non “famigerato”».

Polanski sarà sempre famoso per il suo lavoro. Film come “Rosemary’s Baby”, “Chinatown” e “Il pianista” – col quale ha conquistato e la Palma d’Oro a Cannes e l’Oscar per la miglior regia – sono indubbiamente pietre miliari del cinema moderno. Ma è nel privato, invece, che l’artista ha avuto una vita di orrori, tragedie e scandali; una vita fatta di avvenimenti così drammatici da assomigliare a quelli che lui mette in scena nei suoi film. Per dirla con le parole del critico David Thompson: «Polanski ha la fama di un sopravvissuto».

Per le persone che hanno vissuto attorno a lui, invece, le cose sono andate molto diversamente. Polanski è nato in Polonia: sua madre è morta ad Auschwitz mentre lui è riuscito a scappare dal ghetto di Cracovia finendo col vagabondare nella campagna occupata dai tedeschi e vivere alla giornata, di espedienti. Ma il filo rosso della tragedia lo ha accompagnato oltre la guerra e la Polonia nazista: a Hollywood, proprio dopo aver riscosso un grande successo con “Rosemary’s Baby”, la sua seconda moglie Sharon Tate fu assassinata dalla setta di Charles Manson. Non solo: nel 1977 fu arrestato a Los Angeles con l’accusa di aver violentato una tredicenne, Samantha Geimer.

Gli furono contestati sei capi di imputazione – tra i quali violenza carnale – ma poche ore prima della sentenza, il regista fuggì dagli Stati Uniti per non farvi mai più ritorno. Per questa intervista, la regola è chiara: non si devono tirare in ballo le sue vicende personali che cinque anni fa hanno portato al suo arresto in Svizzera con il rischio concreto di essere estradato negli Usa. Ma alla fine è stato rilasciato: ancora una volta è sopravvissuto.
Ha fatto con una mail le sue scuse private a Samantha Geimer. Rese pubbliche due anni dopo, nel 2011, col documentario “Roman Polanski: A Film Memoir”. E ha chiuso i conti con la vicenda sostenendo che quell’adolescente «è stata vittima due volte: vittima mia e vittima della stampa».

Oggi si presenta in jeans, giacca bianca e maglietta grigia con lo scollo a V. Sembra essere passato indenne attraverso tutti i suoi guai. Ormai ha poco più di ottant’anni, ma a parte un piccolo dispositivo acustico, è in forma smagliante. A ridargli la carica sono stati i suoi ultimi lavori. “L’uomo nell’ombra” – il film realizzato poco prima del suo arresto nel 2009 – ha vinto il premio per la miglior regia al Festival del cinema di Berlino. Poi c’è stato “Carnage”, un adattamento molto ritmato (seppur ingenuo, a tratti) della commedia di Yasmina Reza centrata su due coppie di Manhattan prigioniere di una guerra verbale.

[[ge:rep-locali:espresso:285128436]]Poi c’è stato “Venere in pelliccia”, sceneggiato attorno ai due attori, Emmanuelle Seigner, moglie di Polanski, e Mathieu Almaric. È il suo primo film in francese – gli altri infatti sono tutti in inglese, a eccezione di quello del suo esordio nel 1962, “Il coltello nell’acqua”, che è in polacco – e il regista è stato contento per la calda accoglienza della critica. «È la mia più grande soddisfazione: fare quello che so fare, quello che mi è consentito fare. Quanto più basso è il budget, tanto più sono libero. In questo caso ho goduto di una libertà totale e assoluta, sotto tutti i punti di vista. Se qualcosa è andato storto, la colpa è soltanto mia».

Il film è un altro adattamento, questa volta ispirato dalla pièce teatrale di David Ives premiata nel 2010 con il Tony Award; è una commedia vivace ambientata in un backstage. Dove c’è Thomas, regista e sceneggiatore sfibrato e esausto interpretato dalla nuova star francese Almaric, che si trova faccia a faccia con Vanda, la Seigner nei panni di un’attrice che arriva strizzata in un bikini di pelle nel teatro vuoto per un’audizione. Deve andare in scena la “Venere in pelliccia” del romanzo scritto nel 1870 da Leopold von Sacher-Masoch. E l’audizione si trasforma in una complessa battaglia di genere e in un’indagine sull’identità dei protagonisti che ricorda molto il primo Polanski, da “Cul de Sac” a “L’inquilino del terzo piano”.

Nonostante il film si snodi in un gioco di potere tra maschio e femmina, Polanski scivola subito a declinare i suoi gusti: «Ho visto uno o due film di tipo sadomaso, ma non è il genere che mi interessa». La difficoltà maggiore che dice di aver incontrato è stata quella di «non annoiare il pubblico» con due attori confinati in uno spazio così ristretto. «Ho bisogno di avere una sfida quando faccio un film. Altrimenti mi annoio».

A differenza del suo Thomas, Polanski sostiene di non essere quel tipo di regista che litiga coi suoi attori (anche se Faye Dunaway, sua protagonista in “Chinatown” non sarebbe certamente d’accordo): «Non puoi litigare con gli attori. Mai. Certo, puoi urlare perché manca qualcosa, o perché qualcosa è stato fatto nel modo sbagliato. In questo caso puoi anche esplodere, proprio come fai a casa tua. Solo se va tutto a farsi fottere. Ma non certo perché un attore ha commesso un errore!».

Il ritorno in teatro riporta Polanski all’infanzia, quando a 14 anni salì sul palco per la prima volta. «È stato quello l’inizio della mia vita artistica», racconta. Che lo ha visto al lavoro in commedie e opere liriche, dal “Rigoletto” di Verdi alla storia di Mozart “Amadeus” di Peter Shaffer. «Sento una grande nostalgia per il teatro. Mi piace l’odore, mi piace tutto dei teatri…Quindi girare un film la cui trama si svolge interamente in un teatro dismesso per me è stata una gioia».

È una passione di famiglia: la figlia maggiore avuta con la Seigner, la ventunenne Morgane, studia recitazione alla London’s Central School of Speech and Drama. Il teatro marca il passato della stessa Emmanuelle: suo nonno Louis Seigner e sua zia Françoise Seigner recitarono entrambi alla Comédie Française. «Questo background teatrale, che mia moglie frequenta da quando è bambina, l’ha aiutata a calarsi nella parte. Ma nella vita, lei è più Vanda, più simile alla protagonista de “la Venere in pelliccia” e per questo ho pensato che fosse un ruolo interessante». Polanski ha incontrato Seigner nel 1985 mentre si occupava dei casting per “Pirati”. Nel 1989 erano già sposati.

Per Polanski, agli arresti domiciliari a Gstaad, la cittadina svizzera sulle Alpi dove ha vissuto per periodi intermittenti dopo l’assassinio di Sharon Tate, deve essere stato un po’ come vivere all’interno di uno dei suoi film dell’epoca. Dall’annichilimento di Catherine Deneuve in “Repulsione” alla storia del prigioniero e dell’aguzzina della “Morte e la fanciulla”, i suoi film sono spesso claustrofobici. Possiamo partire da qui per chiedergli che cos’è la libertà; ma lui si rende conto benissimo di dove si va a parare. «Non so cosa sia la libertà! Cerchiamo di non buttarla in filosofia».

Eppure, è lui stesso a portare la conversazione sulle convenzioni sociali di oggi e su come siano differenti da quelle degli anni Sessanta e Settanta. «Il puritanesimo sta conquistando il mondo, sotto tutti i punti di vista. E lo dimostra chiaramente l’ipocrisia dei media». Cosa intende? «In televisione non puoi dire “puttana” o “figlio di puttana”, né usare parole che facciano rima o suonino come “puttana”. Non puoi dire “orgasmo”, non puoi dire “masturbazione”». Sembra divertirsi molto, si compiace di sé stesso: «L’America è quasi metà del nostro mercato. E non si può neppure dire “69”!».

Come crede che sarebbe stata la sua carriera se fosse rimasto negli Stati Uniti? «È come chiedermi: se tu avessi un fratello, pensi che gli piacerebbe il formaggio? Sì, è possibile, ma mi fermo qui; altrimenti dovrei tirare a indovinare. Forse dovrei fare più cose commerciali». Ma è chiaro che lo dice con disprezzo.«Mi piacciono gli sport, mi piace sciare. Quando ero un ragazzino facevo gare di sci. Ma fare il regista è la cosa che mi soddisfa di più, come stare sul set: anche questo è fare ciò che mi piace fare».

E adesso sta lavorando a un adattamento del libro di Robert Harris “L’ufficiale e la spia”. Questa volta a ispirare la scrittura di Harris (che ha già lavorato con il regista già in due occasioni, per “Pompei”, un progetto poi abortito, e per “Il ghostwriter”) è stato l’interesse di Polanski per l’Affaire Dreyfus, lo scandalo politico che spaccò la Francia all’inizio del XX secolo, e che vide coinvolto un giovane ufficiale ingiustamente rinchiuso in carcere per tradimento. Per ora il film si intitola “D”, e Polanski spera di girarlo entro l’anno. Sarà il ventunesimo della sua straordinaria carriera. Lo considera la realizzazione di un sogno? «Ogni mio progetto è un sogno», risponde: «Una volta che ne sei coinvolto, vuoi dare il meglio». L’unica cosa che non ha intenzione di fare, mentre si appresta a entrare nel nono decennio di vita, è fare i film che il pubblico vuole. «Io faccio questi film spontaneamente», sorride: «Non mi interessa proprio niente di quello che ne pensa la gente».
E, se anche gli sta a cuore cosa pensa la gente del reato che ha infangato la sua carriera, non lo dà certo a vedere.

traduzione di Anna Bissanti
© James Mottram / The Independent on Sunday / The Interview People

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