La metropoli catalana ha due volti. Uno aperto, gioioso e gaudente. E un altro meno visibile: irrazionale, chiuso, identitario. E' un'ambiguità irrisolta. Dalla quale nasce tutto il suo fascino. Lo scrittore spagnolo ci guida nella città (Foto di Myriam Meloni per l'Espresso)

La vera natura di Barcellona, se le città hanno una natura, si rivela nella cattedrale. Entrandovi, a sinistra e a destra ci sono lunghe teorie di cappelle dedicate ai santi e alle madonne, alle battaglie (tra cui quella di Lepanto) e ai miracoli: tutte quante cariche di sculture, drappeggi, immagini sacre, per lo più in oro e adornate di pietre preziose.

Al centro, superando l’antico coro decorato con stemmi di nobili e potenti famiglie, ecco il presbiterio. Sotto: le reliquie della patrona Santa Eulalia, martire della cristianità, poste al centro di una specie di teatro barocco in miniatura.

Sopra invece, in uno spazio luminoso e sereno, domina un crocifisso smilzo e bello e che richiama lo stile modernista; spoglio ed essenziale. Il potere del denaro vero, quando si afferma in tutta la sua forza, non ha bisogno di ostentare la ricchezza né alludere al mistero: preferisce dimostrare modestia e semplicità; e svelarsi privo, in apparenza, di segreti e mistica. «Sì è cosi, il denaro qui non si mette in mostra. Qui regna la discrezione, l’understatement, il “si fa ma non si dice”», conferma Javier Cercas.

Cercas è uno scrittore 52enne, autore di romanzi che indagano su memoria e identità della Spagna, Paese simbolo di tutte le guerre fratricide del secolo scorso. Amatissimo dal pubblico e da giganti come Mario Vargas Llosa, il suo capolavoro “Soldati di Salamina” (in Italia pubblicato da Guanda) racconta, tra realtà e finzione, la vicenda di uno dei padri spirituali del fascismo a cui un militare repubblicano salva la vita.
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E per la sua capacità di capire e rendere l’ambivalenza della Storia e delle storie che Cercas è la migliore guida a questa città che nell’immaginario collettivo degli europei si associa all’idea di ribellione, sovversione, godimento, apertura al mondo. Ha scritto Hans Magnus Enzensberger: «Questa è la New York spagnola, la città più bella del Mediterraneo»; mentre Cervantes descriveva un Don Chisciotte che entrando a Barcellona osservava «il mare ridente, la terra lieta, l’aria serena». Le città si dividono tra quelle inclusive e quelle esclusive.

Nelle prime, a New York per esempio, chiunque dopo poche settimane si sente di casa. Nelle seconde, luoghi che spesso hanno una struttura da metropoli come Firenze o Francoforte (ma gli esempi sono infiniti) si è di casa a partire dalla terza generazione. E Barcellona, a quale delle due tipologie risponde? «Una domanda maliziosa», sorride Cercas, e poi ribalta lo stereotipo positivo: «Barcellona è una città esclusiva, che non ama i forestieri, è perennemente in difesa ed è sospettosa nei confronti di chi ama godere e divertirsi».

Poi, indica con la mano la folla variopinta e plurilingue che facendosi largo fra giocolieri, musicisti, cartomanti, venditori di gelati e dei sogni, passeggia per la Rambla, tra l’imponente e modernista Placa de Catalunya e Placa del Portal de la Pau, vicina al mare, e dice: «Tutto questo ai veri barcellonesi non piace. Anzi, un vero barcellonese non frequenta questi luoghi».

Siamo seduti al Moka Caffé sulla Rambla. È un locale che fa parte della storia della città, ma anche della letteratura mondiale del Novecento. Lo ha raccontato George Orwell, in “Omaggio alla Catalogna”, uno straordinario libro per la capacità di unire cronaca e analisi politica. Lo scrittore inglese, ai tempi della guerra civile militava nei reparti armati del Poum, un partito della sinistra radicale libertaria, accusato dai comunisti di “trotskismo”.

«Barcellona», ricorda Cercas, «è stata l’unica città in Europa e forse al mondo dove per alcuni mesi al potere erano gli anarchici e i libertari». I comunisti che dominavano il governo della Repubblica avevano deciso di far annegare nel sangue quel tentativo di pericolosa eresia. Al Moka Caffé, dunque stazionavano, secondo Orwell, le guardie civil, la gendarmeria; si stavano preparando a dare assalto alla sede del Poum, a due passi di là. Orwell invece era appostato nell’edificio di fronte: non era solo un cronista, ma anche un combattente in armi. «Era un grande scrittore, attento ai dettagli», dice Cercas, «ma si è sbagliato, perché il suo spagnolo era carente. Quelle non erano guardie civil, ma le guardie d’assalto: reparti creati dal governo della Repubblica. La differenza non è da poco. Per Orwell era scontato che i cattivi fossero gendarmi e non idealisti al servizio di un’altra sinistra».

Chiarisce: «Lo dico per spiegare quanto questa città possa trarre, specie uno straniero, in inganno». I turisti seduti ai tavoli color arancione e giallo del Moka Caffé sono russi (una tribù numerosa e rumorosa) e arabi (un uomo con due mogli di nero vestite e velate; mangiano ficcando il cibo sotto il velo che copre loro la faccia fino agli occhi). Ma di quella memoria, dell’anarchia, dell’autogestione, di gente che si dà del tu perché gli uomini e le donne sono tutti uguali, delle Olimpiadi alternative a quelle di Berlino di Hitler che cosa è rimasto? Cercas risponde: «Poco o niente. Quella memoria è andata persa negli anni Settanta, durante il periodo di transizione dal franchismo alla democrazia».

E forse era inevitabile: la gente non voleva eroi né utopie; cercava benessere e una vita come a Parigi o a Londra: benedetto borghesissimo consumismo. «Infatti, non mi lamento», precisa lo scrittore. «Anzi, io qui a Barcellona mi diverto molto, perché c’è un filo rosso, che nonostante tutte le mie critiche, lo ammetto, unisce questa città ad esempio a Berlino, luogo di ogni libertà e trasgressione».

Racconta: «Sono state le Olimpiadi del 1992, oltre novemila atleti da 172 Paesi a rendere questa città aperta, ad inserirvi il virus di cosmopolitismo. Poi è arrivata la generazione Erasmus che conquistò, alla lettera, le strade, i marciapiedi, i bar, inventando mille forme di svago, trasgressione, divertimento». Ecco, dunque che il quartiere lungo il mare di Barcellona, una volta regno di piccola criminalità e di prostituzione («marinai scozzesi ubriachi e puttane locali», dice Cercas), con le sue viuzze poco frequentabili, ora è diventato una specie di salotto all’aperto, all’insegna dell’architettura postmodernista. E lì, tra avveniristici ed eclettici ponti, shopping center che per la loro semantica poco hanno a che vedere con questa specifica città, tra palazzi costruiti da archistar del momento, che Cercas ama portare a passeggio i suoi figli.

Dice: «Sono nato nell’Estremadura, figlio di un veterinario. In Catalogna vivo da quando avevo quattro anni. La mia compagna di vita è un’autentica barcellonese, con lei parlo il catalano, così quella lingua è la lingua della mia intimità, l’idioma dell’amore. Ma per lei», scherza, «il lungomare rimane ancora off limits».

Continua: «Adoro poi andare, sempre con i miei ragazzi a fare il bagno alla spiaggia di Barceloneta, anch’essa recuperata in occasione delle Olimpiadi. È un luogo popolare, pieno di immigrati e stranieri, adorabile. E anche su questo», sorride, «la mia compagna ha da ridire». Spiega: «Non certo per paura dei delinquenti, ma perché per veri barcellonesi, quelli sono posti cui manca l’aura di autenticità». E continua, sprofondandosi nell’elogio di quella pratica che Walter Benjamin chiamava “fare il flaneur”, passeggiare per le vie delle metropoli, cercando la bellezza nell’artefatto, nel posticcio, nell’immaginario costruito in mattoni e pietre. Di quell’immaginario del resto, la città è piena. E basti pensare all’architettura modernista a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento. C’è Gaudì, con le linee irregolari e fascinose dei suoi edifici; la Sagrada Familia prima di tutto («una contraddizione vivente in persona, un cattolico mistico e poetico da un lato, una sobrio bardo della razionalità borghese dall’altro», lo definisce Cercas).

E poi, il suo grande rivale Lluìs Domènech, e anche Bernardì Martorell, che cercava di unire il modernismo al passato gotico. E si potrebbe continuare, con pittori (da Picasso a Mirò), musicisti e via elencando. Comunque, per cogliere a pieno le radici delle modernità (e non solo del modernismo) della città è consigliabile una lunga passeggiata (durante cui è bene perdersi, senza seguire necessariamente un percorso prestabilito) nel quartiere di Eixample; tra Casa Pia Batllò, Casa Heribert Pons, Casa Pratjusa e la Fondazione Antoni Tapiès.

A Cercas piace in particolare il vicino quartiere di Gracia. È un ex borgo incorporato nella metropoli, dove lo scrittore lavora (ha qui il suo studio), pieno di bar e piccoli ristoranti, e qua e là gioielli veri, sempre dell’architettura modernista (da non perdere Casa Ferrer al passeig de Gracia). Insomma, a pensarci bene, anche Cercas, in fondo cerca una certa autenticità. Lui si fa serio e per concludere spiega così lo spirito della città. «Certo, e lo ripeto, gli stranieri, per esempio il mio amico e scrittore Jonathan Littel, la trovano accogliente e aperta. Ma io che abito qui, non posso pensare solo alle apparenze. E sono preoccupato per il demone del nazionalismo, della ricerca del particolare, del separatismo che si è impossessato di questa città. Qui sono ossessionati dalla paura di perdere la loro identità».

Interrompe il discorso, pensa e dice: «Ma io non so cosa sia l’identità. Forse è la volontà di essere. Ma se è così, è un discorso ozioso e pericoloso, un’utopia reazionaria che trae le origini nel peggior romanticismo tedesco. E ne abbiamo visto le conseguenze nel secolo scorso in tutto il nostro continente». Continua: «Quella nazionalista, catalana come tutte le altre, è un’utopia assassina. Noi invece abbiamo bisogno di utopie ragionevoli, e l’unica utopia ragionevole è l’Europa».

Cerca di spiegare: «È dura essere un intellettuale, uno scrittore in un luogo in cui ti accusano di essere anti-catalano perché ti ostini a scrivere spagnolo e perché pensi che l’idea dell’indipendenza catalana tradisce solo la volontà di un potere gretto, provinciale, tirchio, ripiegato su se stesso, timoroso di confrontarsi con gli altri». Precisa: «Comunque, e per fortuna, qui non c’è razzismo, gli immigrati sono sempre stati accolti bene». Dice: «Abbiamo prima parlato della storia. C’è gente che pensa che la guerra civile sia stata un conflitto tra la Spagna e la Catalogna».
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Dimostra rassegnazione: «Diceva Proust che alle idee irrazionali non si può rispondere con razionalità». Rimane però il “Barça”, la squadra mitica (anche se in declino), in cui la città si è sempre riconosciuta, spesso considerata il simbolo della resistenza al regime del generalissimo Franco, in contrapposizione con il fascista Real Madrid. «Balle», risponde Cercas, che di calcio si intende. «Il Barcellona ha fatto sognare generazioni di giovani e vecchi, è l’equivalente del Brasile d’Europa. Calcio come fantasia e sogno. Ed è bene così. Ma spesso era pieno di fascisti, così come il Real a periodi era un team repubblicano». Ride: «E però la città, con i suoi miti, funziona. Basterebbe un piccolo sforzo di immaginazione».