Farmaci che aiutano il sistema immunitario a combattere i tumori. La terza rivoluzione genetica arriva in ospedale

Sarà perché il dolore per chi muore di tumore accanto a noi è più forte della gioia per chi sconfigge il cancro. Sarà perché le statistiche e la nostra vita ci confrontano ogni giorno col fatto che le persone che si ammalano sono sempre di più. Sarà perché ci hanno detto troppe volte che gli era stato dato scacco matto. E, in particolare, perché l’ultima grande rivoluzione annunciata, quella dei proiettili biologici mirati al cuore delle neoplasie, fatica a decollare. Sarà perché la guerra al cancro non è vinta neanche un po’ anche se è indubbio che le conoscenze accumulate permettono oggi alla metà e più delle persone che si ammalano di sopravvivere e vivere anche a lungo. Sarà per tutto questo, insomma, che l’oncologia ha bisogno di un giro di boa. E guarda indietro. A quell’idea un po’ pazza, cinquant’anni fa, di cercare dentro di noi la forza per sconfiggere un tumore, chiedendo al sistema immunitario di fare quel mestiere che quarant’anni di farmaci chimici o biologici non sono riusciti a fare.

Medicina
Cancro, i vaccini approvati e quelli in lista d'attesa
23/9/2014
Perché questa idea un po’ pazza oggi diventa molto, molto concreta proprio grazie alla genomica che ci ha permesso di squadernare in pochi anni la biologia dei tumori. Le due punte di diamante della ricerca biomedica - l’immunologia e la genetica del cancro - si saldano in una nuova speranza. Ed è di pochi giorni la notizia che un farmaco capace di dare energia al sistema immunitario in modo da fargli combattere il melanoma, il pembrolizumab, ha avuto il via libera della Fda, l’ente regolatorio americano. È la seconda molecola di questo tipo ad arrivare negli ospedali, due teste di ponte che anticipano una nuova ondata di vaccini, come si può vedere in questo grafico.

Medicina
Immunoterapia anticancro, in principio fu Sir Macfarlane
23/9/2014
E aprono una via affascinante, immaginata ormai più di quarant’anni fa, come raccontiamo qui, ma impossibile da percorrere senza sapere, come oggi sappiamo, i passi che portano una cellula a diventare cancerosa e cosa impedisce al nostro sistema immunitario di bloccare questo corpo estraneo prima che diventi un killer. I nuovi farmaci lavorano proprio su questo: identificano dove si inceppa il sistema immunitario e cercano di raddrizzarlo. La faccenda è complessa e sbisogna spiegare bene tutti i passaggi.

A partire da quella che Roger Perlmutter, presidente dei Merck Research Laboratories dove hanno scoperto e sperimentato il nuovo farmaco, definisce un «bisticcio di parole» molto frequente. Il termine in questione è “vaccini”: per l’opinione pubblica sono quelli che prevengono le malattie, per gli immunoncologi no; sono farmaci capaci di agire sul sistema immunitario come fanno i vaccini, ma non per impedire che un tumore insorga, bensì per curarlo. «I malati sviluppano risposte immunitarie dirette contro il cancro che li ha colpiti, ma queste reazioni sono in un qualche modo bloccate, non riescono a fare fino in fondo il loro lavoro. È un fenomeno che chiamiamo esaurimento immunitario», spiega Perlmutter: «L’obiettivo diventa allora quello di revitalizzare le nostre difese e di metterle in grado di controllare il tumore». Come?

Roger Perlmutter
Studiando il meccanismo biologico i ricercatori hanno scoperto che sulla superficie della cellula ci sono dei recettori messi lì proprio per combattere il cancro, e che rimangono impigliati nella rete di altre molecole che impediscono loro di funzionare. Sono molti e hanno nomi complicati, ma stanno tutti a fare, grosso modo, la stessa cosa. Se si riesce a disattivare le molecole che imprigionano i nostri difensori, il gioco è fatto.

Il primo a riuscirci è stato James Allison, ora all’Anderson Cancer Center di Houston, che ha scoperto una proteina presente sulla superficie delle cellule del sistema immunitario (i linfociti), chiamata Ctla-4, che frena le difese; ed è stata la farmaceutica Bristol-Myers-Squibb a trovare un proiettile che la neutralizza, l’ipilimumab, sperimentato nel melanoma, il tumore della pelle per il quale non c’erano farmaci efficaci. E convinto la Fda a registrarlo nel 2011 in tutta fretta visti i risultati brillanti per malati senza alternative terapeutiche.

Ipilimumab è stato per qualche anno unico attore in scena. E molti cominciavano a pensare che l’immunoncologia fosse un terreno poco fertile. Fino a oggi, e all’approvazione del secondo farmaco di questo tipo: forse qualcosa si muove. Perché pembrolizumab agisce su un secondo difensore anticancro, identificato da un gruppo di ricercatori giapponesi, dell’Università di Kyoto, già nel 1994: si chiama Pd-1 e a bloccarlo è una proteina che si chiama Pd-l1, oggi il target del pembrolizumab. «Abbiamo scoperto che se blocchiamo le interazioni tra queste due molecole, riusciamo a revitalizzare il sistema immunitario in molti - non in tutti - pazienti che reagiscono scatenando una risposta contro il tumore che li ha aggrediti. In molti casi riescono a metterlo sotto controllo e i risultati sono notevoli», spiega Roger Perlmutter.

L’approvazione della Fda permette di usare il vaccino per i malati di melanoma perché la sua efficacia è stata confermata da una sperimentazione clinica che ha arruolato 173 partecipanti con malattia avanzata: uno su quattro ha visto il tumore ridursi e l’effetto è continuato oltre gli otto mesi e mezzo nella maggior parte dei pazienti.

Presentato all’Asco 2014 e pubblicato su “Lancet”, il lavoro è stato salutato come una scoperta decisiva. Tanto che Msd sta sperimentando il farmaco, da solo e in combinazione con altri, su oltre 30 tipi di tumori differenti, tra cui quelli della vescica, del colon-retto, della mammella, della testa e del collo, il polmonare non a piccole cellule e le neoplasie del sangue. Perché il meccanismo immunitario è presente in molti tumori, ma ancora non è chiaro perché in certi casi il farmaco funzioni meglio che in altri. «Ci siamo spaccati la testa su questo. I malati di melanoma hanno risultati buoni, fino al 60 per cento. Ma quelli colpiti al polmone molto meno. Perché? Forse perché reagiscono meglio le persone che non sono state curate con molti altri farmaci prima del nostro. E per il melanoma non c’è molto altro, se non l’ipilimumab? E comunque anche nella terapia del tumore della pelle resta da capire perché il 40 per cento dei malati non reagisce», si chiede Perlmutter.

Medicina
Cura dei tumori, l'Italia resta divisa in due
23/9/2014
Entro la fine del 2014 ci saranno in giro per il mondo più di 24 studi clinici che testeranno il pembrolizumab su circa 6 mila pazienti. Tra questi, i malati italiani dell’unico centro specializzato in Oncoimmunologia del nostro paese, quello del Policlinico Le Scotte di Firenze diretto da Michele Maio, il solo in Italia che ci ha sempre creduto, anche quando credere nella via immunologica significava, a volte, essere guardati con sufficienza. E che oggi non ha timori nel dire che questo approccio è una delle più concrete speranze a disposizione dei malati. O, per dirla con le parole di Perlmutter: «Una luce brillante» nel mood depressivo che sembra avvitare la comunità oncologica e che si toccava con mano tra i 25 mila dell’Asco, la più grande assiste scientifica del mondo che nel 2014 ha festeggiato con così poco entusiasmo i suoi 50 anni.

C’è il rischio di una nuova doccia fredda? Non sarà che tra qualche anno anche l’immunoncologia ci sembrerà una rivoluzione solo annunciata? «Negli ultimi trent’anni abbiamo inventariato tutti i tipi di tumore e abbiamo schedato tutte le possibili mutazioni genetiche che sono coinvolte nella proliferazione cancerosa. È stato uno sforzo poderoso costato miliardi di dollari, portato avanti da migliaia di persone che ci ha insegnato una cosa prima di tutte: è una faccenda tremendamente complicata», chiosa Perlmutter: «Ma ogni successo sta seduto su investimenti e ricerca di base. Oggi abbiamo messo le mani su questo meccanismo biologico e su questo farmaco. Ma è solo l’inizio pallido. Senza altri enormi e costosissimi sforzi che ci rivelino le relazioni tra il cancro e il sistema immunitario non ci saranno ulteriori progressi».

Perché la nuova rivoluzione anticancro prevede non solo conoscenze più approfondite sulla biologia. ma un vero e proprio cambiamento culturale. Come spiega Michele Maio: «Per anni si è cercato di valutare l’immunoterapia con i parametri usati per studiare le chemioterapie, andando a vedere gli effetti del farmaco per pochi mesi e a misurare se era capace di bloccare la progressione della malattia. E questo è stato un errore marchiano. Perché sbloccare le difese porta a risultati molto più duraturi, ma all’inizio poco evidenti».

In pratica, la situazione è analoga a quella dei vaccini usati contro le malattie infettive: la protezione non si esplica immediatamente ma, una volta instaurata, è potente e dura per tutta la vita. «Se le difese si riattivano, lo fanno per sempre e con effetti collaterali assai blandi, e quindi compatibili con una malattia cronica come, a quel punto, è diventato il cancro», aggiunge Maio. Ma questo non significa che si ha una guarigione completa, perché, prosegue: «Restano ancora molti aspetti da chiarire come l’incubo, sempre presente con i farmaci oncologici della resistenza; se queste cure debbano durare tutta la vita o se invece, una volta sbloccato, il sistema immunitario riesca a proseguire da solo nella sua azione difensiva».

Ma quello che era un vicolo accidentato è ormai diventato un’autostrada, che tutta Big Pharma sta percorrendo con farmaci e anticorpi per tutti i tipi di tumore. Sperimentati da molti gruppi di scienziati. Gli italiani sono riuniti nel Nibit (Network Italiano per la Bioterapia dei Tumori, www.nibit.org) che si riunirà dal 9 all’11 ottobre proprio a Siena, in un congresso annuale nel quale vengono presentate le sperimentazioni più promettenti.

hanno collaborato ?Agnese Codignola e Gabriella Verdi