
Una mostra attorno a lui, “Sade. Attaccare il sole” (fino al 25 gennaio) è una sfida che forse solo Annie Le Brun, autrice di un essenziale libro sul marchese, poteva azzardare. Ora Sade lo possiamo vedere vivisezionato attraverso le suggestioni molteplici che il suo talento letterario esercitò nell’Ottocento e soprattutto nel Novecento.
[[ge:rep-locali:espresso:285142429]]Una mostra che intende rappresentare il non rappresentabile, perché irrappresentabile è l’infinito, e l’assoluto è irraggiungibile: Sade queste frontiere le violò con “Le centoventi giornate di Sodoma e Gomorra” (1785), e con le sue eroine Juliette e Justine. È noto che la letteratura francese rimase folgorata o comunque affascinata dai testi fluviali di Sade: a cominciare da Baudelaire a Flaubert, da Huysmans a Barbey d’Aurevilly, fino a Apollinaire: ma non è certo agevole seguire il filo degli eccessi sadiani attraverso opere figurative.
La mostra non poteva che avere una scansione tematica e come guida le pulsioni che si rincorrono nei suoi testi che eruttano lava incandescente come un vulcano. Saint-Beuve nel 1843 considera Sade tra i più grandi ispiratori del moderno, di un moderno magari clandestino e sommerso ma pur reale e esistente come capì Mario Praz già nel 1933. Quando inizia assai lentamente a cadere la “damnatio memoriae” che l’aveva colpito a partire dalla sua morte. Esecrato e amato dunque alla stessa maniera.
Il corpo umano che Sade esplorò in ogni dettaglio ci appare nelle ceroplastiche di Zummo (1695) che vide a Firenze nel corso del suo “Voyage d’Italie” (1775-76) dal quale trasse un testo smodatamente ambizioso che si presenta come un cantiere abbandonato di cui Maurice Lever ha curato un’impeccabile edizione: da esso si deduce che Sade aveva un’educazione artistica precaria nonostante la sua bulimica curiosità per collezioni rinomate, palazzi, ville, chiese e giardini. L’ammirazione per la “Venere” di Tiziano, per il “Martirio di Santa Cecilia” di Maderno, per Michelangelo scultore: al contrario l’ambiguo interesse per Raffaello e Guido Reni e, quel che sorprende, la freddezza per Bernini, la cui “Estasi di Santa Teresa” è certo un precoce incipit di sensualità religiosa. Il suo talento è un grumo di contraddizioni e di approssimazioni sempre tese alla ricerca della natura e della verità. Entrambe le ritrova nell’anatomia che ricorre in fogli e sculture di precisione scientifica e non esita a dire del suo incontro intimo con una fanciulla circondato da cadaveri in cera. «La ferocia è sempre o il complemento o il mezzo della lussuria», dice in Justine.

Per Sade il desiderio è il principio dell’eccesso e della trasgressione: persino Ingres, fratello in spirito di Raffaello, non si risparmia su questi temi, usando un’iconografia che è il contraltare di Delacroix. Il corpo della donna diviene nelle foto di Man Ray un campo privilegiato di violenza, crudeltà e raffinato erotismo. Il più affascinante ritratto di Sade è di Man Ray (1936) che raffigura il busto come fosse una fortezza di pietra, simile a quella che gli sta di fronte: le prigioni Sade le conobbe assai bene e vi fu rinchiuso per ventisette anni sotto i regimi della repubblica, della monarchia e dell’impero. Un accanimento contro di lui che non conobbe soste, anche perché il marchese di ogni sregolata nefandezza si era macchiato nel corso della sua rocambolesca e scandalosa vita che fa impallidire Don Giovanni, Cagliostro e Casanova. I Surrealisti con maggiore avidità seppero attingere alla cornucopia sadiana, avendo fatto tesoro della tradizione oscena di fine Settecento di Lequeu, per giungere agli amplessi del compassato Ingres che attinge ai “Modi” di Giulio Romano, per giungere a Rodin, Picasso, Rops fino a una sterminata iconografia “cochon” in stampe, incisioni, libri che ebbero una sotterranea ma incredibile fortuna.

Il visitatore alla fin fine si può costruire una mostra a proprio piacimento, girando per le sale, avvalendosi di quel che ha visto e vorrebbe vedere (magari senza trovarlo), o indugiando su quel che gli appare del tutto pertinente o meno pertinente all’idea che si è fatto del marchese. “Attaquer le soleil” ha in esordio una splendida eruzione del Vesuvio di Pierre-Jacques Volaire del 1785: il vulcano erutta dalla sua cima uno sbuffo violento da cui nuvole incandescenti si levano e pietre di lapillo si spargono sul golfo in piena notte, mentre in primo piano un gruppo di curiosi e di scienziati si mostrano a dito lo spettacolo pittoresco come pochi altri. In conclusione della mostra troviamo una foto di Brassaï (1938) che ferma un fulmine che serpeggia sull’Observatoire in una notte buia come la pece. Ecco: questi sono i termini estremi di uno scuotimento della natura che diviene verità nella sua espressione più violenta.