Incontro il vicedirettore del museo di Auschwitz, Andrzej Kacorzyk, e Jadwiga Pinderska-Lech, responsabile delle pubblicazioni del museo, in un ristorante di fronte all'ingresso di Auschwitz 1. E' la prima struttura che i nazisti, già subito dopo l'invasione della Polonia, nel 1940, riadattarono a campo di concentramento per rinchiudervi i polacchi che ritenevano pericolosi e circa 15mila prigionieri di guerra russi. Il ristorante ha un'aria vagamente demodé, da ex cortina di ferro. E proprio da quel periodo, dal dopoguerra in cui la Polonia cadde sotto l'influenza del gigante sovietico, parte la storia del museo.
L'idea nacque praticamente subito dopo la liberazione del campo, e già la prima esposizione si fece nel 1947. Da allora, seppure arricchita da scoperte successive, la parte di esposizione permanente non è mutata in modo sostanziale. La caduta della cortina di Ferro ha portato, dagli anni Novanta in poi, a un incremento sostanziale del numero dei visitatori, che da anni non scende sotto il milione ed è anzi in aumento. Frotte di visitatori che arrivano da tutto il mondo, e a cui non è semplice raccontare cosa è accaduto in questo luogo. “Dobbiamo tenere conto che le nuove generazioni sono lontane da ciò che successe qui. E che ci sono visitatori non europei, per i quali l'Olocausto è un fatto più difficile da collocare storicamente”, spiega Kacorzyk. L'accuratezza storica è del resto la preoccupazione principale di chi lavora qui: per questo motivo, solo le guide autorizzate e formate dal museo possono accompagnare i gruppi nella visita. Sono oltre duecento, spesso parlano molte lingue e fanno un lavoro che non assomiglia a nessun altro. Ad alta intensità emotiva e non adatto a tutti. “Chi vuole fare la guida qui viene sottoposto a un colloquio faccia a faccia molto approfondito.
Ovviamente dobbiamo evitare gli antisemiti” spiega il vicedirettore “e chinque non abbia a cuore la verità dei fatti”. Un tema, la verità, che ricorre anche parlando della programmazione del museo. “Nei padiglioni nazionali ogni nazione può organizzare mostre temporanee. Quella curata dallo Yad Vashem di Gerusalemme è ad esempio una delle più recenti. Ma c'è una commissione, composta dai curatori e dagli storici del museo, che ne valuta il contenuto e declina le proposte per così dire 'artistiche”. Non contaminare la verità con la finzione, e non solo per paura del negazionismo, è un metodo di lavoro. Applicato a correggere e diffondere, anche attraverso la casa editrice del museo, una versione il più possibile completa di ciò che è avvenuto.
La linea editoriale del museo di Auschwitz, curata da Jadwiga Pinderska-Lech, ne è un tassello: finora sono stati editi circa 350 titoli, in venti lingue. Il progetto di Terra del Fuoco è di far conoscere meglio anche in Italia i testi, portando la casa editrice del museo di Auschwitz al prossimo Salone del Libro di Torino. Mentre parlano della loro professione, Jadwiga e Pinderska-Lech e Andrzej Kacorzyk sono pieni di energia, pur avendo appena passato i giorni delle celebrazioni del 70esimo della liberazione del campo in una serie di cerimonie e commemorazioni faticose. Perché avete scelto questo lavoro? Non vi fa male, anche dopo tanti anni, spiegare e raccontare l'orrore? “Alcuni cominciano a lavorare qui, ma poi non ce la fanno. Altri mollano, poi tornano. Molti – dottori, professori, professionisti – scelgono di fare la guida come secondo lavoro. Ce ne sono di talmente coinvolti che non leggono altro, solo materiale e libri su Auschwitz” racconta Kacorzyk. Ne sono ossessionati? “Non la definirei un'ossessione. La definirei una sfida, un compito che vogliamo portare avanti. E in tutti questi anni, anche in questi giorni, quando ad Auschwitz sono arrivati i sopravvissuti, che ormai sono anziani, e apparentemente fragili, è stata la loro forza a motivarmi. Parlare con loro, conoscere le loro storie, mette tutto in prospettiva. Loro sanno cosa ha valore e cosa non conta nulla. E' una lezione che dobbiamo continuare a diffondere”
Cultura
2 febbraio, 2015Il museo-memoriale creato nel 1947 nel campo di sterminio dà lavoro a oltre 700 guide autorizzate e ricercatori e curatori. Un piccolo mondo. Dove preservare la memoria è un compito vissuto come "una sfida quotidiana"
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