Dopo il successo di 'Se ti abbraccio non aver paura' lo scrittore veneto torna con un romanzo che ha al centro una vicenda vera ?di sanità. Forse la più umana delle esperienze

Prof, sono allergico. Celiaco. Malattia immunitaria. Ma che succede in questi ultimi anni, mi chiedo. E quello studente, con il padre scomparso, così, all’improvviso? Voglio scrivere della salute e del corpo, mi dico. Chiudo gli occhi, li riapro e sulla pagina scritta appare Lorenzo. E suo padre, sdraiato. Ma non per scelta. Lorenzo, invece, ha scelto di diventare un medico, e si trova ad affrontare un dilemma: suo padre ha avuto un grave incidente stradale e ne è uscito paralizzato. Ma nella testa di Lorenzo s’infila il dubbio che l’esito del padre dipenda da una responsabilità dei medici.

Lorenzo lo sa che non è facile essere giovani, che quando cerchi risposte ti considerano un rompiscatole, che ti fanno giocare nel campionato della responsabilità sempre come riserva. Ma è tenace, dubita (come ogni mente scientifica), cerca, non molla. Trascina, persino, il suo ex prof di Scienze, nella ricerca della verità.

Quella di Lorenzo è una storia vera, una delle tante storie che mi è capitato di incontrare, e che mi ha colpito perché attraversa quel particolare “incrocio degli incroci” che è la Sanità, dove macrosistemi (le aziende ospedaliere, gli investimenti economici, le industrie farmaceutiche, le compagnie assicurative, la ricerca e la scienza medica) s’intersecano con il destino personale: la malattia, la cura, la paura, la speranza.
Nessun altro libro che ho scritto mi ha dato tanto tormento. Perché, nella stesura di questo romanzo, ci sono state alcune, come dire, improvvisazioni sul tema.

Il tema salute mi piace. Sono un patito di storia della salute umana. Ci sono medici che riescono a raccontare l’evoluzione delle malattie, il percorso del corpo e della cura, con una prosa sfavillante e con una visione acuta. Riescono a farti comprendere la natura dell’ammalarsi: dalle epidemie al cancro. Allora qualcosa capisci di come il nostro corpo, nel tempo, risponde all’ambiente. Non sono letture rassicuranti, sono letture istruttive.

Della vita ho capito che nasciamo in un punto e moriamo in un altro, e la qualità del movimento tra questi due punti la chiamo salute. La salute coinvolge tanto la genetica quanto la responsabilità, personale e collettiva. È il solo investimento ad alto rendimento che ci sia concesso. Lo comprendiamo per bene, quando qualcosa s’inceppa. Quando tocchiamo con mano i “processi irreversibili”: la vita non è un film che puoi riavvolgere a piacimento.

M’infilo le scarpe del prof di Scienze, e qualcosa provo ad insegnare a proposito di corpo e salute. Vorrei dire ai miei studenti, durante una delle risicate ore di Anatomia e Fisiologia umana, che il cuore è a destra e il fegato a sinistra. Per vedere se si indignano. Mi piacerebbe che uno di loro, magari un tipo come Lorenzo, si alzasse in piedi e mi dicesse: «Prof, come si permette? Cerchi di avere più attenzione quando parla di ciò che ci tiene vivi!» La sensazione, invece, è che del funzionamento del corpo se ne disinteressino in troppi.

La copertina di 'Tu non tacere' di Fulvio Ervas
È facile osservare la radura, la pellicola che sbirciamo la mattina, allo specchio. Ma la “selva oscura”? Intendo il tono del cuore, i brontolii delle viscere, la mucosa della bocca, la glicemia che sale e scende, l’adrenalina che brucia. Per questo, ritenendo un’autentica iattura la perdita dell’equilibrio della “selva oscura”, la figura del curatore di corpi è, per me, fondamentale. Dopo dio, c’è solo il medico.

Lo puoi fare da solo, essere il medico di te stesso. Oppure affidarti ad altri. Ci sono molte scelte, a tal proposito. In tutti i casi, il curatore è una figura potente, evocativa, strategica. Può toglierti il dolore, può fermare un’emorragia, farti funzionare di nuovo il cuore. Può farti vivere ancora.

Alle volte questo non accade. Nessuno lo vorrebbe, ma accade. E se accade davvero? Quando mi sono trovato davanti a questa domanda, come scrittore, mi sono spaventato. Quanto sottile è la linea che separa il curare dal non salvare? Che patto si rompe, in quell’istante? E il sistema, come si comporta in questi casi? Non è lì, proprio lì, tra l’errore e il danno, che le modalità di reazione del sistema indicano la sua forza o la sua fragilità?

Dei meccanismi del sistema sanitario sapevo poco, come ogni normale cittadino. Certo, qualche questione mi girava nella testa. «La medicina è la sola professione che lotta incessantemente per distruggere la ragione della propria esistenza», diceva un politico inglese, James Bryce. Ma perché non ci riesce?

La spesa sanitaria è una fetta importante del Pil di una nazione ricca, e nonostante quest’impiego di risorse gli ospedali non si svuotano, il Pronto Soccorso non s’annoia mai, le gravi patologie si riproducono, il sostegno farmacologico è, per milioni di cittadini, ineliminabile. Siamo malati cronici, più che sani cronici. Temo che le ragioni dell’esistenza della medicina non si estingueranno mai, perché non conosciamo il nostro corpo, non lo rispettiamo, non lo usiamo secondo i suoi limiti.

Quando ho cercato di comprendere gli “effetti collaterali” del sistema sanitario, sono scivolato in un universo complesso, densissimo. C’erano storie incredibili. Scrivevo la storia di Lorenzo, con un tormento di sottofondo, convinto che narrare con uno sguardo apparentemente sghembo, raccontasse molto di salute e Sanità, di questa foresta intricata e affascinante. Scrivevo, senza immaginare che sarei stato risucchiato dal sistema, che ne avrei, di lì a poco, fatta esperienza diretta.

Credevo di essermi nascosto dietro la figura dell’ex prof di Scienze, ed invece la vita mi ha stanato: ero più Lorenzo che prof e stavo scrivendo, anche, una storia su di me. Come se, componendo un romanzo sulle meteoriti, queste ti bombardassero all’improvviso la casa. Certi patimenti che avevo solo immaginato, tra le pagine del libro, hanno riempito la mia mente per intere notti.

Mai avrei immaginato di affacciarmi alla stanza di un ospedale con angoscia, di inghiottire, in diretta, la paura che una persona cara morisse. Pensavo mi scoppiasse il cuore durante le sei ore di attesa di un intervento salvavita, con possibilità di riuscita che stavano, appena, sul dito mignolo. Invece fai esperienza di suppliche, affinché un medico decifri i sintomi; provi ad insistere, sino a quando incappi in quello davvero bravo, che poi è solo più empatico ed umano. E partecipi, anche tu, come un vivandiere a cui hanno messo in braccio un fucile, ad una Grande Guerra, per respingere la morte.

Un groviglio di emozioni, autentiche, indotte, consolatorie. Scrivo. E vivo. Bene e male. Incontro sciatteria ed eccellenza. Come il protagonista, Lorenzo, non avrei accettato la morte di mia madre. Non perché sia vietato morire. Perché in un mondo asimmetrico come il nostro, dove qualcuno possiede tante informazioni e altri nessuna, ti devi fidare. Accade di dover consegnare a qualcuno la tua stessa vita. Sulla fiducia. Tutto ciò che hai.

Quello è il confine, la linea. Che ci deve convincere ad avere rispetto per chi agisce su quella linea bruciante, ma che deve obbligare chi ha scelto di esserci a non sprecare una sola vita per qualcosa di evitabile. Dopo, c’è solo l’irreversibilità.