Non ci sono vettori per il Pianeta Rosso, andarci costerebbe mille miliardi, bisognerebbe creare reti di satelliti attorno al corpo celeste e lassù non si riesce a vivere. Parla il presidente dell'Istituto di astrofisica

Quanti siano quelli che vogliono andare a vivere su Marte non è chiaro. C’è chi parla di 200 mila domande, chi di 2 mila. Ciascuna domanda era accompagnata da un modesto contributo in denaro chiesto per “motivi amministrativi”. Poche settimane fa, le selezioni. Che hanno identificato i “magnifici cento”. Così, almeno, si apprende dal sito di Mars One, la fondazione olandese di un eccentrico milionario, che propone di mandare gente su Marte e lasciarla lì. Tutti ne parlano, ma vorrei provare a chiarire alcuni fatti relativi a questa pericolosa illusione, rivolta a persone facilmente attirate dalla voglia di notorietà, più che di avventura.

Nessuno è ancora andato su Marte. Anzi, dal 1972 nessuno è mai stato al di là della Luna e neanche davvero fuori della gravità terrestre (gli astronauti della Stazione Spaziale, ricordo, non sono fuori dalla gravità terrestre, sono a poche centinaia di km da noi). Una ragione c’è: oggi non abbiamo più un razzo come il Saturno V del Progetto Apollo che portò l’uomo sulla Luna. Quello che ci porta su Marte dovrà essere un vettore capace di contenere esseri umani e il necessario per la loro sopravvivenza, cioè diverse decine di tonnellate, e spingerlo a decine di km al secondo. Nessuna agenzia spaziale ce l’ha, e nessun privato ha piani credibili per costruirlo.
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Ma una spedizione umana su Marte non si fa solo con un razzo con l’equipaggio. È una complicata operazione a tappe, con l’invio preliminare al pianeta rosso di missioni “cargo”, che richiedono comunque un bel razzo per ciascuna, e che lascino in orbita, o depositino sulla superficie, quello di cui i coloni hanno bisogno, almeno all’inizio. Il materiale e i rifornimenti devono essere mandati con una ferrea organizzazione di priorità e di sincronismo. Inoltre, siccome tutto si basa sulla comunicazione con Marte, sia prima per capire se i trasporti siano arrivati bene, sia dopo per interloquire con gli astronauti in orbita e “ammartati”, bisogna prevedere già dall’inizio una rete di telecomunicazioni Terra-Marte-Terra che sia potente e sicura.

Il che significa un certo numero (diciamo almeno 4 perché il pianeta gira) di satelliti di telecomunicazioni in orbita marziana, capaci di ricevere segnali dalle navi in orbita e dalla superficie, di gestire il traffico locale e poi di trasmettere a Terra con sicurezza, continuità ed efficienza una enorme quantità di dati. Basti pensare a quello che richiederebbe una “diretta” televisiva da Marte, che sempre gli uomini di Mars One sembrano considerare tecnicamente equivalente a “L’isola dei famosi”. Per non parlare naturalmente delle enormi antenne necessarie a Terra, anch’esse a varie longitudini, perché anche la Terra gira.

Naturalmente, quelli che parlano di andare a vivere sul Pianeta Rosso pensano di fare tutta la spedizione con pochi miliardi di dollari. Per la cronaca: la Stazione Spaziale è costata 200 miliardi al mondo intero e la Nasa stima in un trilione (mille miliardi) il costo di una prima spedizione su Marte.

Insomma, Mars One non ha la minima probabilità di portare nessuno su Marte: bisogna distinguere uno show televisivo dalla realtà. Speriamo, da un lato, che tutto questo non si trasformi in una tragedia; e speriamo che non spuntino delle vere e poprie truffe a danno di ingenui un po’ mitomani. Che se per caso arrivassero su Marte (ma per fortuna è più facile che la loro nonna traversi a nuoto l’Atlantico), scoprirebbero le gioie di vivere giorni (pochi) contati, appesi all’esile filo della speranza che non ci siano guasti, prima che, con certezza, si esali l’ultimo respiro letteralmente, mentre le sabbie rosse stanno a guardare.

E sì che ormai abbiamo una idea molto precisa di come siano le condizioni sulla superficie di Marte. È uno dei grandi risultati della scienza moderna, anzi, una somma di risultati che dobbiamo alla ingegneria astronautica e alla planetologia sperimentale degli ultimi 40 anni. Dai primi tentativi sovietici e americani degli anni Sessanta e Settanta (il primo ammartaggio fu sovietico, nel 1971) ad oggi, abbiamo sparato una cinquantina di missioni verso il pianeta rosso. La metà sono fallite (anche se recentemente stiamo migliorando), circa 14 si sono inserite con successo in orbita del pianeta per osservarlo da vicino e un totale di 5 sono finora ammartate con successo e poi mosse per esplorare la superficie, queste ultime tutte della Nasa (ma tra pochi anni “ammarterà” Exomars della Esa, che potrebbe dare un contributo importante, esplorando il sottosuolo alla ricerca di vita nascosta).

L’enorme bagaglio di osservazioni ed esperienze in situ, più le osservazioni dedicate da Terra e dai telescopi spaziali, ci danno un’idea precisa di come siano dure le condizioni per la sopravvivenza su Marte di esseri umani, cioè di una forma di vita evoluta su di un altro pianeta. Marte ha una atmosfera trascurabile, meno di un centesimo della nostra, e comunque irrespirabile (priva di ossigeno), che rende impossibile all’acqua di essere liquida, le temperature sono quasi sempre bassissime, poi ci sono terrificanti tempeste di sabbia, eccetera, eccetera. Ormai sono cose di dominio comune.

Al punto che una descrizione tra le migliori che io conosca di come potrebbe davvero essere la vita su Marte è contenuta in un recente libro di quasi-fantascienza, o meglio di divulgazione scientifica un po’ romanzata, nello stile di quel genio di Fred Hoyle (“La nuvola nera”, 1957). Il libro in questione è “The Martian”, di Andy Weir , uscito negli Usa l’anno scorso ed ora tradotto in italiano con il (discutibile) titolo di “L’uomo di Marte” (Newton Compton). È un libro godibilissimo, che presto sembra uscirà come film (e in effetti sembra scritto apposta…). Mark, il protagonista, è atterrato su Marte con Ares 3, la terza missione, quando per il pubblico la cosa è ormai routine (chi si ricorda del secondo Apollo?). Lui e i compagni sono colti in una tempesta di sabbia e, mentre cercano di rifugiarsi nell’astronave, lui cade, si ferisce e alla fine rimane solo su Marte.

Inizia un’avventura di naufrago solitario, che Weir, eccellente scrittore moderno, racconta molto bene, facendoci rivivere il Robinson Crusoe di Daniel Defoe (dei primi del ‘700). Mark sopravvive perché la spedizione aveva lasciato uno “hub”, un riparo pressurizzato, con eccellenti macchine, in gran parte ancora da inventare, per produrre ossigeno e acqua. Ma ha paura di morire di fame, e inventa un modo di coltivare patate concimando lo sterile terriccio marziano con le sue feci (pensateci, o eroi di Mars One!). Per comunicare con la Terra, usa dei massi allineati con alfabeto Morse e visibili dai satelliti Nasa.

*presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica

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