Una messa in scena alla Royal Opera House di Londra. E un film in arrivo, il primo aprile, nelle sale di tutto il mondo. Torna un lavoro di Kurt Weill e Bertolt Brecht. Feroce satira sul denaro e sul piacere

Ci sono città che crescono, altre che si restringono, luoghi dove le periferie si estendono e i centri storici si svuotano. Città-satellite che esplodono al boom di quelle originarie. E città pulviscolari: diffuse come frammenti disseminati lungo un territorio. Tutte queste cose insieme è Mahagonny, la scomposta, crepuscolare, e con la vocazione al suicidio, protagonista di “Rise and Fall of the City of Mahagonny”, opera lirica in tre atti nata, negli anni Venti, dal tempestoso sodalizio tra il compositore Kurt Weill e il drammaturgo Bertolt Brecht.
Rappresentata per la prima volta a Lipsia nel 1930, torna oggi in una produzione della Royal Opera House di Londra, in un allestimento in lingua inglese (a cura di Jeremy Sams), diretto da Mark Wigglesworth, regia di John Fulljames. Parte della stagione della Royal Opera House Live Cinema, il primo aprile lo spettacolo farà il giro dei cinema di tutto il mondo, incluse una ottantina di sale italiane, distribuito da QMI (www.rohalcinema.it).

“Ascesa e caduta della città di Mahagonny”, fondata da tre criminali con l’obiettivo di macinare soldi (Leokadja Begbick-il mezzo-soprano Anne Sofie von Otter, Fatty-Peter Hoare e Moses-William W. White), è una satira sulla società dei consumi e sul piacere ad ogni costo: una distopia sullo sfondo di una città immaginaria che, tuttavia, somiglia maledettamente ad alcune metropoli contemporanee, strabordanti di merci ed energia: Shanghai, Dubai, Bangkok.
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Città-container, come quelli multicolor, con la globalizzazione sigillata dentro, che affollano i grandi porti. A teatro, una ziggurat di grande suggestione, che domina il palcoscenico: merito di Es Devlin, set designer abituata a firmare non solo opere liriche (come il “Don Giovanni” di Kasper Holten), ma anche mega eventi (le Olimpiadi di Londra 2012) e concerti pop (Lady Gaga, Jay Z). Segnale chiaro degli ibridismi portati in scena nel reverenziale scrigno rosso di Covent Garden, 2.200 posti sold out da appassionati di tutto il mondo, pronti a esercitarsi nell’arte della critica. Che, invece, tirano un sospiro di sollievo: Mahagonny non è Londra, ma qualunque città a corto di valori, “spider web” (“Netzestadt”) che attrae furbastri e sprovveduti.
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Aggiungete un tifone pronto a spazzarla via, e shakerate: la vita, al limite della morte, somiglia a un guazzabuglio dove tutto può succedere: che interi camion riversino migranti; che uomini di lardo muoiano sull’ultimo boccone; che frotte di prostitute si accalchino; e uno (il tenore Kurt Streit-Jimmy) sia condannato a morte per tre bottiglie di whisky.

Nell’aria, “Alabama Song” (“Oh show us the way to the next whisky bar” canta Christine Rice), reso noto dai Doors, David Bowie, Marianne Faithfull. O “Moon of Alabama” (interpretata da Lotte Lenya, nel 1958) tra i refrain più orecchiabili, dal lirismo subito stordito. Perché non c’è la tentazione di indulgere nelle melodie più ruffiane, che riportano al cabaret delle origini, e avvicinano al musical. È un’opera spigolosa, questa. E frammentata, episodica, coerente con un plot che ha al centro gli inconcludenti. «Testo e musica sono in continua lotta», dice Fulljames, il regista: «Spesso un testo brutale è impostato su un brano sentimentale. Uno sincero è compromesso da una musica ironica».

E se il ciclone non passa? La città del vizio, le spalle voltate a Dio, indebolita dai conflitti e dalla crisi economica, è ormai una scatola vuota, senza nulla da offrire. Se non la sensazione che il tempo stia per scadere. Come a Weimar, oggi.

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