Presentato in anteprima al festival di Toronto l'emozionante documentario "Je suis Charlie" di Daniel ed Emmanuel Leconte. Una ricostruzione attraverso immagini giornalistiche quella terribile mattina della carneficina nella redazione del giornale satirico. E che documenta l’incredibile ondata di commozione che ha colpito la Francia e il mondo intero

“Charb sapeva di giocare col fuoco. Ma chi era a soffiare sul fuoco? Lui o i terroristi?”. Ha le lacrime agli occhi Daniel Leconte, 66enne giornalista e regista francese, autore con il figlio Emmanuel del documentario "Je Suis Charlie", presentato in anteprima al festival di Toronto, quando parla di Stéphane “Charb” Charbonnier, direttore di Charlie Hebdo, assassinato lo scorso 7 gennaio nella sede del giornale satirico insieme a 11 altre persone: la sua guardia del corpo Franck Brinsolaro, i colleghi vignettisti Jean “Cabu” Cabut, Georges Wolinski, Bernard “Tignous” Verlhac, Philippe Honoré, il curatore editoriale Mustapha Ourrad, i giornalisti Elsa Cavat e Michel Renaud, l’economista Bernard Maris, l’addetto alla manutenzione Frederic Boisseau e l’agente Ahmed Merabet. “Io li conoscevo bene”, racconta Leconte “erano miei amici, ed è per questo che ho deciso di girare questo documentario che è un omaggio alla loro vita e al loro impegno”.

Il film ricostruisce attraverso immagini giornalistiche quella tremenda mattina in cui i fratelli Saïd e Chérif Kouachi obbligarono con la minaccia delle armi la disegnatrice Corinne “Coco” Rey a digitare il codice che sbloccava la porta di accesso alla redazione e, una volta entrati, iniziarono la loro carneficina. E documenta l’incredibile ondata di commozione che ha colpito la Francia e il mondo intero capace di stringersi attorno alle vittime al grido di Je Suis Charlie.

“Quasi 4 milioni di persone sono scese in strada a Parigi e in Francia per manifestare il proprio sdegno, la vicinanza e la necessità di difendere la libertà di espressione”, spiega Leconte “cioè molte più di quante se ne fossero raccolte per la fine della Seconda guerra. Questo film cerca di raccontare questa emozione e non riguarda le controversie sulla pubblicazione delle vignette su Maometto: a quello avevamo già pensato col precedente documentario, "It’s hard being loved by jerks" (è dura essere amati dagli idioti, ndr.) che nel 2008 raccontava la battaglia legale successiva alla ripubblicazione su Charlie Hebdo delle vignette del danese Jyllands-Posten, per cui il giornale francese era stato portato in tribunale per diffamazione. Francamente non me la sentivo di fare un altro documentario, ma poi mio figlio Emmanuel (co-regista del film, ndr.) mi ha convinto che era necessario. E in fondo aveva ragione, perché la gente ha reagito con questa straordinaria partecipazione agli attentati proprio perché era stata condotta quella lotta per la libertà di espressione”.

“Non possiamo accettare che qualcuno possa arrivare a uccidere con i kalashnikov dei vignettisti perché hanno fatto satira sulla religione, che è un’ideologia discutibile come ogni altra”, spiega Emmanuel Leconte “e quell’atto ignobile richiedeva una reazione: così abbiamo rimesso mano a molte delle interviste fatte per il documentario del 2008, in cui sono le stesse vittime a rispondere con le loro parole ai terroristi”.

Così in "Je Suis Charlie", oltre ai tormenti di chi è sopravvissuto a quella strage, tra cui quelli di Coco per aver permesso agli assassini di entrare nella redazione altrimenti inaccessibile, si vedono ad esempio anche Charb e Cabu parlare del proprio lavoro e delle minacce ricevute, ma anche Wolinski, Verlhac e tutti gli altri. “Le vignette non prendevano in giro la religione, ma ironizzavano sul modo in cui i fondamentalisti usano la stessa per giustificare la propria violenza e la visione che vogliono imporre al mondo”, spiega Emmanuel Leconte “e il problema è che oggi è passata l’idea per cui ogni offesa richiede una riparazione. Ma le vignette, l’arte, per quanto possano essere offensive, hanno lo scopo di provocare, di scatenare il dibattito. Come nel caso delle recenti vignette su Aylan, il bambino siriano morto sulla spiaggia, che hanno scatenato nuove polemiche: tutti i giornali del mondo hanno già pubblicato quella immagine e ora il problema sembra il disegno di Charlie Hebdo (in cui sulla spiaggia dove giace il suo cadavere è piantato un cartellone di McDonalds con la scritta: 2 menu bambino al prezzo di 1, ndr.). Ma non è una provocazione fine a se stessa: il vero scandalo, come sottolinea la vignetta, è che l’Europa doveva aspettare di vedere quella immagine per prendere coscienza del problema dell’immigrazione”.

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