Oasi naturali

Lagorai, alla scoperta del Tibet d’Italia

di Sandro Orlando   24 settembre 2015

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Trekking preistorici e tracce della Grande Guerra su questo massiccio ?delle Dolomiti trentine. Qui la presenza umana è rarissima, ma tornano ?linci e lupi

Alla fine dell’ultima grande glaciazione, 12 mila anni fa, l’uomo ritornò sul Lagorai. C’era già stato 30 mila anni prima. Quando nelle battute di caccia del Paleolitico l’Homo sapiens sapiens - l’uomo moderno - si era spinto fin su le alture del Tesino, incrociando i suoi progenitori di Neanderthal, prima che questi si estinguessero per l’incapacità di adattarsi al nuovo ambiente. 

L’arrivo dei ghiacci innescò una fuga dalle montagne. Ma col mutamento del clima, le tribù di cacciatori tornarono in quota. Anche perché, a causa del disgelo, enormi masse d’acqua si abbatterono sulle valli sottostanti, e la piana tra Trento e Bolzano si trasformò in unico lago.

Per circa 5 mila anni dunque l’uomo restò su quest’area alpina del Trentino orientale, come testimoniano le tracce di bivacco e i frammenti di selce ritrovati sui laghetti del Cobricon e il passo Manghen, sul col di San Giovanni, a forcella Ravetta e in decine di altre località del Lagorai. Al punto che gli archeologi hanno inaugurato un “trekking mesolitico” per far ripercorrere i sentieri battuti nella preistoria su questo massiccio delle Dolomiti. 
Dopodiché ogni presenza umana scomparve, per riapparire solo molto tempo dopo, ormai nel Medioevo: ma solo nelle malghe più a valle, e nei periodi dell’alpeggio estivo.

[[ge:rep-locali:espresso:285597404]]Ancora oggi il Lagorai è disabitato. Questa catena montuosa aspra e selvaggia prende il via a una ventina di chilometri ad est di Trento, superati i laghi di Caldonazzo e Levico, dalla cima della Panarotta. Qui le trincee e i resti di due postazioni militari (i forti di Tenna e del Col delle Benne) segnalano che questa fu una zona dove esattamente cent’anni fa si combatté la Prima guerra mondiale.

Questo massiccio di porfido rossastro che si apre un varco tra la Valsugana e la valle del Vanoi a sud, la val dei Mòcheni e la val di Fiemme a nord, correndo per 90 chilometri fino ad infrangersi contro le Pale di San Martino, dovette apparire agli austriaci come una naturale barriera di difesa. Tant’è che fin dal 1890 cominciarono a fortificare tutte le vette, gli altipiani e i valichi che dalla Panarotta portano al passo Rolle.

Ed è questo anche l’itinerario della TransLagorai, un’altavia molto impegnativa che richiede almeno 5 giorni di cammino a quote che arrivano ai 2.754 metri di cima di Cece, per percorrere le mulattiere lastricate che servivano a rifornire le linee di difesa austriache lungo questa dorsale dolomitica. Una grandiosa traversata in un ambiente alpino molto solitario ed austero, da compiere in totale autosufficienza alimentare, scavalcando 30 passi, con oltre 5 mila metri di dislivello.

Perché se c’è una costante nella storia del Lagorai è il suo isolamento. «Su tutta la catena da un’estremità all’altra non c’è un villaggio, non una sola casa. Si può camminare intere giornate nei boschi immensi senza incontrare anima viva», annotava già nel 1913 Karl Felix Wolff, il cronista delle tradizioni popolari trentine, che ha raccolto tutte le leggende e i racconti che da generazioni si tramandano in queste valli.

E anche oggi se si eccettua la provinciale che da Borgo Valsugana sale su al passo Manghen, non ci sono altre strade che consentano di arrivare sul Lagorai da un punto diverso dall’inizio o la fine. E neppure ci sono impianti di risalita. Quanto ai rifugi e ristori, in tutto il massiccio se ne incontrano solo tre: il Sette Selle, il Manghen e il Cauriol. Mentre per trovare le poche malghe aperte bisogna scendere di quota. 

Ecco perché per attraversare quello che viene anche definito il “Tibet delle Dolomiti” è fondamentale avere scorte di cibo a sufficienza. Di acqua invece se ne può trovare quanta se ne vuole. Del resto il termine “aurai” fa riferimento proprio agli anfratti umidi che qui abbondano, e ai quasi cento laghi e laghetti sparsi su tutto il territorio. Una presenza che è anche il segno delle passate glaciazioni, e dei sommovimenti millenari che hanno scolpito la fisionomia di queste montagne inospitali: con i fondovalle incisi da conche e soglie glaciali, i pendii disseminati di morene e accumuli di detriti, i ghiaioni di massi levigati, le fratte originate da smottamenti e slavine.

Fenomeni che hanno lasciato una traccia profonda anche nella memoria collettiva, oltre che nelle rocce; tanto da ritrovarsi nelle leggende diffuse in quest’angolo del Trentino, che ruotano intorno alla sacralità degli specchi d’acqua. Un tratto comune, questo, anche con alcune civiltà dell’Himalaya. 

E così ecco la favola che riconduce l’origine della valle del Primiero, a San Martino, dove finisce il Lagorai, a un grande lago svuotato a causa delle lontre, che con i loro denti ne avevano eroso le sponde. Una profanazione che scatenò per rappresaglia lo sterminio di questa specie, altro elemento ricorrente dei racconti che si conservano in queste valli. Quale che ne sia la causa, certo è che le lontre qui si sono estinte. E questo proietta un’ombra sinistra sulla storia di quest’arco alpino. «Una continuità di violenza», come ha scritto il giornalista e storico Franco de Battaglia, che si tramanda «dalle schegge di selce all’inferno di piombo, 10 mila anni dopo»; «Lì al Colbricon, dove i cacciatori attendevano la selvaggina al varco, lì fra Panareggio e Cia dove i pastori hanno poi massacrato le lontre della leggenda, esattamente lì, nello stesso “sito”, Kaiserjäger e alpini nella Grande Guerra 1915-18, hanno installato le loro postazioni di mitragliatrici: per falciare il passaggio di altri uomini questa volta, non degli stambecchi».

Camminamenti e fortificazioni militari si scorgono già salendo sulla Fontanella, poco oltre la Panarotta; e poi il giorno successivo, superato il monte Croce, alla forcella di Bolenga, dove si passano baraccamenti mimetizzati nel pietrame. Ma bisogna arrivare sullo Ziolera, dopo 16 ore di arrampicate solitarie su grandi pietraie, ghiaioni e nevai, per cominciare a intravvedere il sistema difensivo nella sua complessità.

Reticolati e trincee, ricoveri e postazioni sono ben visibili dalla forcella dei Pieroni in poi, e ancora più avanti, dopo quattro giorni di marcia, in prossimità del monte Cauriòl e di cima di Cece. Del resto era stato lo stesso Cesare Battisti, l’irredentista trentino autore di una ricognizione geografica delle linee di difesa austriache, commissionata segretamente alla vigilia della guerra dal nostro comando militare, a sottolineare l’importanza strategica del Lagorai in caso di conflitto: un solo cannone su queste vette sarebbe stato in grado di spezzare l’asse principale di rifornimenti del nemico lungo la linea del Brenta.

È per questo che nel 1916-17 le creste comprese tra il Cauriòl, il Colbricon e il Cavallazza furono al centro di sanguinosi combattimenti, che costarono la vita a 2 mila soldati italiani e austriaci. Molti morirono semplicemente per la neve e le valanghe. Con la disfatta di Caporetto, il fronte venne abbandonato.

Se le lontre sono scomparse, le marmotte proliferano nelle brughiere e praterie che dallo Ziolera scendono al lago delle Buse, tra arbusti di rododendro, ginepro e mirtillo. Il loro fischio improvviso costituisce per giorni l’unico segno di vita su queste montagne selvagge. Dopo che qualche anno fa un’epidemia di rogna ha decimato le colonie di stambecchi e camosci, sono rimaste solo le aquile e le civette, i picchi e i galli forcelli, a popolare queste alture. Anche se qualche capriolo, volpe e lepre, ancora s’intravvede qua e là. Ed stato segnalato un ritorno di lupi, linci e sciacalli, e pure di qualche orso. Ma gli uomini no, non sono tornati quassù, a parte i pastori che d’estate portano le loro mandrie a pascolare nelle malghe più a valle. 

Le genti di Fiemme, del Vanoi, del Tesino, della Valsugana e della val dei Mòcheni, che per millenni hanno usato le montagne del Lagorai come porto franco per scambiare merci con altre comunità, non s’avventurano più su queste cime. L’abete rosso della Valmaggiore, un pregiatissimo legno usato da sempre per fabbricare strumenti musicali, oggi da Cavalese prende altre vie per arrivare in tutto il mondo. Le strade e le gallerie, i tralicci, le dighe e le altre opere dell’uomo che hanno devastato l’ambiente alpino, hanno finora risparmiato il Lagorai. Una montagna massacrata un secolo fa dalla violenza delle guerra, è diventata così un’oasi di natura intatta e incontaminata. Ed è questo ancora il suo fascino.