Tra labirinti e draghi di pietra, nella campagna umbra sorge l’incredibile residenza esoterica disegnata da uno dei maestri del Novecento

Foto LigaDue / CreativeCommons
La strada che porta alla Scarzuola è già un viaggio attraverso il tempo. Mentre ci si avvicina alla misteriosa città teatro nascosta nel cuore dell’Umbria, scompaiono alla vista i paesi appollaiati sulle colline e gli innumerevoli agriturismo che ormai affollano anche quest’angolo defilato con località dal nome evocativo: Monteleone, Montegabbione, Montegiove.

Poi, nel sentiero sterrato che si inoltra nel verde scuro di una boscaglia, restano solo cespugli carichi di more e qualche vecchia casa colonica abbandonata. Ma anche un flash quasi estraniante: un ragazzo e una ragazza, belli, alti e biondi, i corpi abbronzati coperti soltanto da una salopette di jeans, puliscono una porcilaia circondati da alcuni maiali. Sembra il set di un film country ma è la scelta di vita rurale di una coppia di giovani svedesi fuggiti dal XXI secolo.

Così, quando si arriva al cancello della Scarzuola si è pronti a ogni sorpresa. Ma non fino allo scatenamento fantastico che si nasconde dietro il convento fondato in onore di San Francesco che qui nel 1218 costruì una capanna con una pianta palustre chiamata “scarza”. Il primo affaccio dall’alto fa girare la testa: scale e labirinti, torri e giardini, cupole e tunnel, cavalli alati, vasche, mosaici, anfiteatri, templi, obelischi, bocche di draghi, un gigantesco busto nudo di donna... Si avverte il fantasma di Dalí ma si pensa di essere piombati in una costruzione di Escher e di non poterne più uscire.

Per fortuna ogni luogo, specie se allucinato e temibile, ha il suo Virgilio. Il nostro si chiama Marco Solari ed è il guizzante spirito del luogo. Ci vive, ne ha cura, lo restaura, lo amplia, vi accompagna i turisti e parla loro del suo grande zio, l’architetto Tomaso Buzzi, il più colto del Novecento italiano (secondo l’apprezzamento attribuito a Federico Zeri), che questa città immaginò, la costruì, e nel 1981 gliela lasciò, incompiuta, in eredità. Lui ha continuato a edificarla, seguendo i progetti e gli schizzi disseminati da Buzzi in mille carte.

Prima di raccontare la sua visione ultima del mondo in queste metaforiche costruzioni di tufo, Buzzi era stato un architetto di grande successo professionale e mondano, fondatore con Giò Ponti della rivista “Domus”, ideatore delle residenze più esclusive della nobiltà e della borghesia italiane, tra cui il rifacimento di Villa Casati Stampa di Arcore, oggi proprietà di Berlusconi.

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Andava controcorrente, metteva orpelli dove imperava lo stile razionale, si ispirava a Vitruvio e Palladio e agli antichi incisori cinquecenteschi. Quando il termine non era ancora di moda, dichiarava di voler essere un architetto “postumo” e, a osservare la Scarzuola, ci è riuscito. La sua vita e il suo estro sono stati raccontati qualche anno fa in un bel volume di Electa “Tomaso Buzzi, il principe degli architetti. 1900-1981”, curato da Alberto Giorgio Cassani, con un apparato iconografico che rende merito a un artista che forse non gode ancora del dovuto riconoscimento.

Ma chi visita la sua città ideale ne intuisce il carattere smanioso e la capacità evocativa, insieme a un messaggio ai posteri che impasta le suggestioni di un percorso artistico a quelle di un’esistenza inquieta, perché, come scrive Cassani: « La Scarzuola è il luogo del pastiche storico per eccellenza, il gran teatro della Memoria di ciò che è rimasto nel fondo del setaccio delle invenzioni (anche di quelle uccise sulla carta) degli Antichi Maestri».

Oggi la memoria è aiutata dalla voce narrante e dall’entusiasmo di Solari, che concede ai visitatori un tour non sempre rassicurante. Alle immagini escatologiche del fondatore, alle allusioni esoteriche evidenti, il cicerone aggiunge le sue, altrettanto spiazzanti e in linea con quello che gli occhi vedono e la mente sospetta.

Foto Binomio77 / CreativeCommons
Chi non accetta che entrando nella città buzziana «si deve uscire dallo spazio-tempo», è meglio che non lo segua. Ma perderebbe la descrizione dell’ultimo giardino fatto con il criterio di quello di Bomarzo, un giardino che è «madre, che è sé, che è psicoanalisi, perché dove manca il tetto si può dire tutto»; non scoprirebbe che sta calpestando un esagramma, nel cui centro «l’uomo è l’axis mundi contro l’universo»; non capirebbe che la città contiene sette spazi scenici: il teatro del Finito, del Non-Finito, del Corpo Umano, dell’Acqua, delle Naumachie, dell’Arnia e delle Api; non saprebbe niente della simbologia presa esplicitamente a modello da l’“Hypnerotomachia Poliphili”, il viaggio iniziatico pubblicato in età rinascimentale che ha per tema la ricerca della donna amata, ma è metafora di una trasformazione interiore verso l’amore platonico. E non individuerebbe neanche le tante suggestioni massoniche disseminate qua e là.

Il visitatore che cercherà alla Scarzuola la conoscenza diretta delle cose, osserverà con sollievo soltanto le riproduzioni in scala ridotta di monumenti come Colosseo, Partenone o Arco di Trionfo, ma ne uscirà ugualmente confuso. Quello che si lascerà cullare dalle suggestioni di questo sogno diventato città, avrà fatto un’esperienza sconcertante, immaginifica, delirante. E quindi umana.

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