Hanno salvato milioni di vite umane. Ma sono sempre meno efficaci. Perché i batteri sono diventati più resistenti. E i rischi per il futuro sono altissimi: se non si interviene subito un semplice taglio a un dito, un’appendicite o un parto potrebbero diventare estremamente pericolosi. Ecco cosa si deve fare per evitare il peggio
La storia degli antibiotici cominciò con un colpo di fortuna. Alexander Fleming aveva lasciato il suo laboratorio per qualche giorno, abbandonando sul bancone da lavoro anche qualche piastra contenente dei batteri. Al ritorno, la sorpresa: un fungo, “scappato” dal laboratorio vicino, aveva contaminato la piastra: e lì, di batteri, neanche l’ombra. A spazzarli via, saltò fuori, era stata una sostanza prodotta proprio da quel fungo: la penicillina. Era il 1928. E a Fleming quella scoperta valse un Nobel.
L’età dell’oro degli antibiotici sarebbe scoppiata quindi tra gli anni Cinquanta e Sessanta, con l’arrivo delle medicine derivate negli scaffali di dottori e farmacisti. Oggi però le glorie e i traguardi del passato rischiano di rimanere nei libri di storia. Perché nel frattempo i batteri hanno imparato a convivere con gli antibiotici, diventando in alcuni casi insensibili e il fenomeno dell’antibiotico-resistenza rischia di catapultarci in una vera apocalisse: i vecchi farmaci non funzionano e di nuovi più efficaci non ce ne sono (ancora). Ma qualcosa possiamo ancora fare. Subito però, e a livello globale, tuona un report su “Lancet”, dopo la scoperta in Cina di un nuovo gene che conferisce resistenza ai batteri anche contro un antibiotico considerato tra le ultime armi di difesa funazionanti.
lo scenario peggiore: dieci milioni di vittime «Le economie emergenti, come la Cina e l’India, sono fonti importanti anche per l’emergenza di nuove forme di antibiotico-resistenza», spiega Annalisa Pantosti, dirigente del Dipartimento di Malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità, commentando la scoperta in Cina. Il gene in questione è stato trovato in alcuni enterobatteri (Escherichia coli e Klesbsiella pneumoniae) prelevati da animali da allevamento (pollo e maiali) e da pazienti ospedalieri. «La resistenza alla colistina era già nota; a destare preoccupazione stavolta è il fatto che il gene che la conferisce si trova su un plasmide: una piccola molecola di dna che può trasferirsi facilmente da un batterio all’altro, trasportando così anche l’insensibilità al farmaco». Perché le resistenze agli antibiotici non conoscono confini, e questa alla colistina sarebbe già stata trovata anche in Danimarca. «La colistina è tornata recentemente in auge nella terapia di infezioni umane gravi quando tutti gli altri antibiotici non funzionano: e allora, in attesa che ne arrivino dei nuovi, si ripescano dagli armadietti quelli vecchi».
Per il 2015 le richieste di colistina si calcola abbiano raggiunto quota 12 mila tonnellate a livello mondiale. Europa inclusa. E Italia inclusa: l’ultimo report Esvac dell’Agenzia europea per i medicinali (Ema) ci dice che solo nel 2013 il nostro paese ha consumato 120 tonnellate di polimixine (la classe di antibiotici di cui fa parte la colistina), per un totale di oltre 1.300 tonnellate di antimicrobici usati in ambito veterinario. Tra i paesi che li consumano di più, dopo Spagna e Germania. E ne consumiamo tanti anche a livello medico: con quasi 28 dosi al giorno per mille abitanti siamo quinti in Europa, dopo Grecia, Romania, Francia e Belgio. «Sebbene l’antibiotico-resistenza sia un fenomeno naturale, maggiore è la quantità di antibiotici che i microbi incontrano, maggiore è la probabilità che sviluppino resistenze agli antibiotici», spiega la ricercatrice. E
ogni anno, solo in Europa, le resistenze agli antibiotici fanno circa 25 mila vittime. Un quadro destinato a peggiorare (fino a 10 milioni di morti al mondo nel 2050: la parola “apocalisse” non è esagerata) se non si interviene subito; e uno scenario che potrebbe rendere un semplice taglio a un dito, un’appendicite o un parto momenti estremamente pericolosi nella vita di ciascuno.
No, contro i raffreddori non servonoIl primo passo per scongiurare lo scenario peggiore è dunque quello di
razionalizzarne l’utilizzo. Se negli allevamenti il bando europeo contro gli antibiotici per favorire l’accrescimento ha rappresentato giù un buon punto di partenza, molto resta ancora da fare. «Di sicuro il primo passo è rappresentato dal miglioramento delle condizioni di allevamento, e così dall’abbassamento del rischio di contagi. Per il resto, trovare misure alternative all’uso profilattico, a livello del singolo animale e non della comunità, come si fa negli esseri umani, è ancora difficile», precisa Pantosti. Ma anche guardando all’utilizzo che ne facciamo noi le cose sono complicate: «Si stima che almeno un terzo delle prescrizioni di antibiotici sia inappropriato; ovvero fatto per combattere virus anziché i batteri, mentre gli antibiotici sono inutili contro le infezioni virali, come quelle comuni alle vie respiratorie», spiega Pantosti.
Eppure un preoccupante 64 per cento della popolazione, svela un report dell’Organizzazione mondiale della sanità, è convinto che gli antibiotici siano efficaci contro virus e raffreddori. E il 32 per cento invece crede di poterli sospendere non appena si sente meglio, sbagliando. Così facendo infatti non si eliminano tutti i batteri che causano le infezioni, alcuni sopravvivono e aumenta il rischio che si sviluppino resistenze. E l’Italia, a tal proposito, nello scenario europeo se la passa malissimo: «La nostra posizione è molto critica», continua Pantosti: «Per quasi tutte le resistenze prese in considerazione dal programma di sorveglianza europea l’Italia si posiziona sempre sopra la media». Le più pericolose? Quella di Klebsiella pneumoniae ai carbapenemi, di Staphylococcus aureus alle meticelline e di Escherichia coli a fluorochinoloni e cefalosporine. «Per i primi due parliamo di infezioni nosocomiali, come polmoniti, meningiti, sepsi, endocarditi, infezioni di ferite chirurgiche; per Escherichia anche di infezioni a livello comunitario, come quelle urinarie».
Più stimoli alla ricercaUsarli meno e usarli meglio non basta. L’altra scommessa per scongiurare un’apocalisse antibiotica è nella ricerca. Sia nello sviluppo di nuovi strumenti diagnostici per capire se siamo in presenza di resistenze batteriche, o di batteri patogeni o meno - come il cerotto che cambia colore dell’University of Bath e dal Bristol Children’s Hospital - sia nello sviluppo di nuovi farmaci. Puntando soprattutto su iniziative pubbliche, riconoscendo il problema di interesse globale e cercando di colmare il vuoto lasciato dalle industrie farmaceutiche. «Gli antibiotici rispetto ad altri farmaci sono usati per un tempo limitato, costano relativamente poco e richiedono tantissimi anni di sviluppo», spiega Pantosti: «Ecco perché, oltre le difficoltà tecniche, le industrie hanno da tempo abbandonato la ricerca sui nuovi antibiotici».
Ma qualcosa sta cambiando, grazie alle partnership tra pubblico e privato, cercando di invogliare le industrie a puntare di nuovo sugli antibiotici. Come il progetto europeo Enable, che mira a trovare promettenti candidati antibiotici contro i batteri gram negativi (i più preoccupanti per le resistenze) fondendo expertise e conoscenza di università e industrie farmaceutiche, con programmi di drug discovery e continue open call. Per mettere insieme tutte le forze possibili per scongiurare un’apocalisse antibiotica.