Non solo Inquisizione e Pinochet. Di fronte agli attentati il sadismo del potere trova nuove ragioni. ?In un saggio Donatella Di Cesare denuncia la violenza nascosta ?che infetta anche i sistemi democratici

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Facile indignarsi per la tortura, considerarla un retaggio del Medioevo, un’odiosa eredità dell’Inquisizione che non dovrebbe aver luogo nel nostro mondo civile e progredito, quando a praticarla sono regimi dittatoriali o (fino a pochi decenni fa) Paesi colonialisti nelle loro lontane propaggini africane o asiatiche. E ancora, tutti noi restiamo sgomenti e troviamo difficili da sentire e leggere i racconti delle donne schiave vendute, brutalizzate, stuprate, distrutte nel corpo e nell’animo dai maschi guerrieri del califfato, tra Raqqa e Monte Sinjar.

Ma che dire quando la tortura viene applicata là dove le autorità sono legittime, democraticamente elette, e quando il tormento estremo inflitto al corpo del prigioniero (e la tortura consiste nel ridurre l’essere umano al mero corpo, al corpo dolente, al dolore che annienta ogni altra percezione e cancella il futuro perché l’unico desiderio del torturato è morire, per porre fine al supplizio e alla vergogna), che dire appunto quando la tortura viene giustificata con le necessità della lotta di una democrazia al terrorismo? E in fondo, quante volte abbiamo visto, stampata sui giornali, trasmessa in Rete e nelle tv la domanda: è lecito, allo scopo di salvare vite umane, torturare un terrorista (mai si usa la parola uomo in quei casi) a conoscenza di una bomba che sta per scoppiare?

La copertina del libro di Donatella Di Cesare
Di tutto questo e di molto altro parla Donatella Di Cesare nel suo fondamentale libro, intitolato semplicemente “Tortura”, senza sottotitolo né spiegazioni, a sottolineare lo scandalo e la forza della parola stessa, uscito da Bollati Boringhieri. Filosofa, romana, allieva di Hans-Georg Gadamer, esegeta critica di Martin Heidegger (si veda il caso dei “Quaderni neri”), in questo testo radicale nel suo impianto politico e coraggioso nell’affacciarsi sull’abisso dell’indicibile, Di Cesare sostiene una cosa semplice: la tortura ha sempre proliferato nelle democrazie; solo che è una pratica occulta, «fenice nera» la chiama lei, nascosta nei suoi dettagli ai nostri occhi: una vicenda intima in apparenza, tra il carnefice e la vittima, e che tuttavia risulta l’epifania del potere.
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All’Espresso confida: «È un’illusione di stampo illuministico pensare che con la conquista della democrazia e il progredire delle libertà si abolisca la tortura». E poi riferendosi alla situazione italiana spiega: «Certo, sarebbe molto bello introdurre il reato di tortura nel nostro Codice penale, ma non basta, perché c’è qualcosa che va oltre la questione giuridica e che permette il proseguimento di questa pratica».

E allora, come chiamare quel qualcosa che va oltre i codici penali? Forse si tratta della necessità, intrinseca in ogni potere, di controllare il corpo e i ritmi della vita dei cittadini. La tortura in fondo non è altro (proprio per la sua manifesta e radicale brutalità) che un esercizio di controllo estremo sul corpo dell’Altro, del prigioniero, del terrorista, del sospetto e potenziale attentatore. Il carnefice lavora la carne della vittima in uno spazio concreto e definito, ma al contempo simbolico, proprio per affermare: anche se sei un cittadino, qui, in questa camera chiusa, sei solo il corpo dolente, e sono io a determinare la misura del tuo dolore e sono solo io a poterti liberare da quel dolore, procurandoti la morte oppure rilasciandoti. Il mio arbitrio contro il tuo corpo: è quella la situazione che si crea tra il boia e il torturato; dove l’arbitrio non è emanazione di una personalità perversa (anche se capita), ma l’espressione appunto più radicale possibile dello Stato. In altre parole: la tortura, annullando il cittadino come categoria, annulla anche lo spazio pubblico. Ecco perché nelle democrazie si tortura in segreto. Ma segreto fino a un certo punto.

Antonin Scalia, scomparso qualche mese fa, è stato un giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti. Conservatore, in una discussione ebbe a dire (la citazione è tratta da “The Atlantic Monthly”): «Jack Bauer ha salvato centinaia di migliaia di vite umane (…) C’è un Tribunale capace di condannare Jack Bauer? Io penso di no».

Jack Bauer è un personaggio fittizio, ed è proprio quel dettaglio a rendere la situazione interessante: protagonista della serie tv “24”, agente del controterrorismo, fa largo uso di tortura per prevenire, appunto, gli attentati. La sua popolarità in America è dovuta anche al fatto che il suo ruolo è recitato dall’affascinante ed elegante Kiefer Sutherland. Jack Bauer, insomma è il carnefice simpatico.

E ancora, in “Screening Torture. Media Representations of State Terror and Political Domination” (“La tortura va in onda. Come i media rappresentano il terrorismo di stato e il dominio politico”) a cura di Michael Flynn e Fabiola Salek, vengono elencati e analizzati decine di film prodotti all’epoca della lotta al terrorismo, in cui si fa uso, e talvolta apologia, della tortura. È nota la polemica attorno a “Zero Dark Thirty” di Kathryn Bigelow, dove la regista suggerirebbe che il nascondiglio di Osama Bin Laden fu scoperto grazie all’interrogatorio “duro” di un prigioniero. Ma nel libro si parla anche del “buon carnefice” interpretato da Denzel Washington (un altro attore simpatico e intelligente) in “Men on fire”. Lui tortura per sapere dove si trova una bambina rapita in Messico. E alzi la mano chi non sarebbe d’accordo nell’applicare l’estrema brutalità per salvare la vita a una ragazzina incarnata dalla tenera (all’epoca aveva dieci anni) Dakota Fanning.

C’è un abissale contrasto tra l’immaginario hollywoodiano del Ventunesimo secolo e “Garage Olimpo”, film canonico per quanto riguarda la tortura (paragonabile allo status canonico di “Se questo è un uomo” rispetto ad Auschwitz), girato alla fine del secolo scorso dal regista Marco Bechis. Bechis raccontava la storia di una desaparecida in Argentina. La protagonista, Maria (l’allora diciannovenne Antonella Costa) è legata nuda a un tavolaccio di ferro arrugginito. Non c’è giustificazione al supplizio e le immagini sono delicate, mai esplicite. La brutalità accennata senza epifania di sangue finisce per produrre smarrimento, estraniamento e paura della morte. Spiega Bechis: «La tortura non ha immagini». L’idea del film fu concepita durante un viaggio nella Bosnia in guerra, dove «i soldati avevano più paura della tortura che della morte».

E qui siamo nel cuore di tenebra e nel focus del libro di Di Cesare. La filosofa mette insieme riflessioni attorno a opere di letteratura e cronaca. Contesta l’approccio cosiddetto “pragmatico”, alla questione. Critica il guru dell’America liberal Michael Walzer che in un saggio (per la verità risalente a una quarantina di anni fa) sostiene che chi governa, qualche volta debba «sporcarsi le mani». Se la prende con un altro liberal, Michael Ignatieff, e con la sua teoria del “male minore” per cui talvolta sono lecite azioni moralmente ripugnanti. Il male minore è sempre un male, ricorda la filosofa, riecheggiando Hannah Arendt. E annota che la “teoria della bomba a orologeria”, per cui tutto è lecito per salvare le vite umane, si basa su ipotesi non verificabili, estremizzate e abusate da filosofie che vogliono spacciarsi per pragmatiche e realiste, senza esserlo. Perché alla fine resta la nuda realtà e i nudi corpi, e la morte che è preferibile alla sofferenza. C’è Abu Ghraib e Guantanamo; la caserma Bolzaneto e le percosse subite in tante carceri di democrazie funzionanti. La tortura è un corpo a corpo tra il boia e la vittima; e c’è poco da teorizzare e niente da giustificare.

Negli anni Cinquanta in Francia fu celebre il caso di Henri Alleg, ebreo di origini polacche, militante comunista in Algeria, che subì torture orrende e ne parlò in un libro “La Question”, confiscato dalla censura, con la postfazione di Jean-Paul Sartre. Alleg non tradì, resistette. Sartre lo elogiò, perché in fondo, la sua attrazione per il nichilismo comprendeva pure l’ammirazione della figura dell’eroe comunista. Scrisse: «Colui che cede all’interrogatorio, non soltanto è costretto a parlare, ma gli è stato imposto per sempre uno status: quello del sotto-uomo».

Anche Di Cesare nel suo libro spiega quanto lo scopo della tortura non è ottenere informazioni o punire. Dice però che alla tortura non si resiste. Ma allora a muovere il boia è il piacere, lo stesso piacere sadico che provavano gli uomini dell’Inquisizione mentre interrogavano la strega nuda, o il boia argentino che, come racconta una sua vittima, chiamava la picana, lo strumento di tormento, con il nome femminile e intimo Carolina? «Io non entro nella questione della radice del Male. In questo libro ho voluto solo fare la fenomenologia della tortura, perché ripeto, fare una legge che la dichiari reato va bene, ma non basta», risponde. E con questo riapre la questione.