“L'Opera da tre soldi” torna al Piccolo di Milano, dove debuttò nel 1956. Allora c’erano gli operai e il comunismo. Oggi la sua attualità è nelle collusioni tra crimine, potere e giustizia

Quanto tempo, dal 1956 al 2016. Come dire, da Kruscev a Google. Sessant’anni dalla morte di Bertolt Brecht, e dalla prima italiana della sua “Opera da tre soldi”, al Piccolo Teatro di Milano, per la regia di Giorgio Strehler, con Brecht presente, già malfermo di salute ma tutto sorrisi nella sua giacchetta blu da maoista (se ne sarebbe andato da questa Terra pochi mesi dopo, il 14 agosto, nella cupa Berlino Est).

Il 19 aprile “L’Opera da tre soldi” di Brecht e Weill, il grandissimo Kurt Weill morto a New York nel 1950, rinasce in un’edizione italiana che ha l’ambizione di far colpo come fece, ai tempi, quella di Strehler con Tino Carraro, Mario Carotenuto e Milly. L’Italia arrivò tardi allora (l’esordio fu a Berlino nel 1928), ma c’erano stati il fascismo, l’autarchia, la guerra e l’ignoranza. Si può rifare oggi, con un allestimento ambizioso, che attualizza gli eterni intrecci tra criminalità, corruzione e potere. Al Teatro Strehler si profila il tutto esaurito, 50 mila spettatori in due mesi di repliche.

C’è un regista quarantenne assai richiesto in Europa, Damiano Michieletto; un cast coraggioso, intorno al giovane Marco Foschi (Mackie Messer il criminale di fascino), Peppe Servillo (Peachum l’imprenditore dei mendicanti) e la diva spagnola Rossy de Palma (Jenny la prostituta); una scenografia sorprendente, la gabbia di un tribunale, per un processo a Mackie. Il rispetto della partitura originale per piccola orchestra, diretta da Giuseppe Grazioli, ripristinando i tagli fatti allora da Strehler, e una nuova traduzione di Roberto Menin (e Michieletto per le canzoni).
brecht2-jpg

«Nessun culto degli anniversari, qui da noi», esordisce ironico il direttore del Piccolo Sergio Escobar, «ma questo era difficile ignorarlo. Vogliamo proporre un Brecht non appesantito dalla lettura operaista del rapporto tra ricchi e poveri. Nel ’56 Brecht a Milano fu molto sorpreso della regia scanzonata di Strehler. Quell’anno - non è un dettaglio - vide entrare i carri armati sovietici a Budapest». E Brecht, aggiungiamo noi, nel 1928 era un dandy libertario, non era neanche iscritto alla Kpd, il partito comunista tedesco. «Prendiamo di petto questi 60 anni e il tempo che è passato. A teatro la dimensione tempo è fondamentale, e alla domanda “perché Brecht oggi, perché risvegliare la memoria dormiente?” rispondiamo: ci attraeva l’anacronismo».

L’“Opera” in versione Michieletto non si svolge nella Londra vittoriana, come nell’originale; né in una Chicago banditesca, come volle Strehler; ma in un spazio simbolico. Spiega il regista: «Brecht poté lavorare insieme a un genio, Kurt Weill. La “Dreigroschenoper” è ardua da etichettare. Svaria dal musical al jazz, dal teatro epico alla denuncia sociale». Ovviamente è lontanissima dall’operetta. «Certo, e anzi fu scritta con molta spavalderia. Si canta, si parla, si ricanta. Per questo abbiamo voluto darle una spina dorsale: che è appunto l’idea del processo a Mackie».

Ricordiamo il succo della storia: Mackie il bandito sposa la figlia di Peachum capo dei mendicanti, che osteggia il matrimonio, e lo fa arrestare allo scopo di eliminarlo. Dietro al rischio d’impiccagione, in realtà, non c’è l’onore familiare, ma il controllo di traffici di denaro. Le eterne connivenze tra criminali, giustizia e politica. Da cui la scenografia emblematica, una grande gabbia dentro alla quale si muoveranno gli attori, sempre insieme in scena, per tre ore.
brecht3-jpg

«La vicenda è raccontata a ritroso», riprende Michieletto, «come in un processo dove giudice e testimoni ricapitolano i fatti davanti alla corte, in scena, e al pubblico vero in sala. Volevo rafforzare il livello narrativo, quasi una ricostruzione per flashback. L’attualità del tema è fin troppo evidente, va evitato il rischio banalità. Il pubblico non è quello del 1928, né del ’56. Ma i temi sono ricorrenti: la corruzione morale, l’ingiustizia sociale, la miseria urbana, integrati ed esclusi (pensiamo oggi ai migranti), e le connivenze tra poteri contrapposti. La Londra di Brecht è solo un pretesto. I costumi sono di oggi, totalmente contemporanei».

Ed ecco qui Peppe Servillo, cantante e attore in uno, aria da gattone e molto a suo agio con il vecchio Bertolt, mai del tutto comunista, poeta sempre, e a volte snob: «Sì, qui siamo attori che cantano, le canzoni mandano avanti la storia, senza fratture. Noi interpretiamo e testimoniamo». Chi è il più cattivo di tutti? «È Peachum. Sono io. La mia figura richiama una precisa tipologia d’imprenditore cinico e colluso, che organizza il disagio sociale a suo vantaggio». Il suo estro napoletano ha influito?«Certi vecchi attori suggerivano, a proposito di taluni caratteri, di pensare la battuta in dialetto. Diciamo che un poco lo si può fare anche con il Brecht della Repubblica di Weimar...».

Vicino a lui, il 38enne Marco Foschi, Mackie Messer. È forse quello che rischia di più: «Mackie non l’abbiamo abbellito. È una canaglia di fascino. Donnaiolo, si prende le sue libertà, è anche violento. Ma tiene a un certo stile personale. Il carattere sanguigno, anche da imputato che rischia la pena capitale, lo porta a un rapporto costante col pubblico». Accanto ai due maschi avversari c’è Jenny, la prostituta intrepretata dalla formidabile figura picassiana, di Rossy de Palma, musa di Pedro Almodóvar.

Ma dietro la “Dreigroschenoper” non c’è solo un testo teatrale. Ci sono le modernissime, incalzanti melodie di Kurt Weill, questo gigante in Italia non sempre riconosciuto tale. Lei non trova, maestro Giuseppe Grazioli, che dirigerà l’ensemble dell’Orchestra Verdi? «Girerei la domanda: Brecht senza Weill, così come il cinema di Fellini senza Nino Rota, avrebbe avuto lo stesso successo? Non penso proprio». Che cos’avete restaurato, rispetto alla partitura Strehler? «Strehler, dovendo ridurre il numero degli strumentisti, modificò anche l’orchestrazione, col consenso di Brecht. Noi l’abbiamo ripristinata. Non si comincia con il cantastorie della “Ballata di Mackie Messer”, ma con l’Ouverture originale di Weill, molto cruda e squadrata. E nell’ultimo corale, nel terzo atto, si capirà come Weill riassuma una serie di temi precedenti, da quel compositore sofisticato qual era».

Perché Weill resiste come classico del moderno? «Per motivi simili, direi, alla fortuna di musicisti come Nino Rota o Fiorenzo Carpi. Sanno giocare con la memoria dello spettatore, che percepisce certi passaggi come a lui familiari. Weill sa creare con poche note strutture imponenti. Utilizza il jazz “alla tedesca”, incluse le tonalità da Kabarett».

Infine, ricordiamo perché l’“Opera da tre soldi” è storicamente così rilevante. Brecht e Weill operavano nella vivacissima Berlino pre-nazista. Brecht, famiglia cattolica bavarese, da ragazzo era un duro, attratto dai fuorilegge, aveva esordito nel clima di Monaco espressionista, quello di “Tamburi nella notte”.

Weill, ebreo figlio di cantore alla sinagoga di Dessau, si formò in provincia, fu allievo a Berlino di Humperdinck e Ferruccio Busoni, conobbe gli artisti engagés della Novembergruppe, maturò un’opera come il “Mahagonny Songspiel”. Fu così che due destini s’incrociarono. Entrambi erano antinazisti e internazionalisti. Entrambi costretti all’esilio: Brecht in Danimarca, Finlandia, California, e Weill negli Stati Uniti. Nel corso dei decenni, l’“Opera” ha saputo tenere vivo lo spirito di Weimar; e le celebri songs hanno ispirato generazioni d’interpreti, Ella Fitzgerald e Nina Simone, Milva e Sting, e la stupefacente Ute Lemper. Per tutte queste ragioni, le avventure di Mackie Messer si caricano di significati speciali ancora oggi. Anche a Milano, sessant’anni dopo.