L’infanzia in Polonia dopo la guerra e la Shoah. Poi Israele, la Germania e l’Italia. Nel nuovo libro di Wlodek Goldkorn di cui anticipiamo le prime pagine

Mi perdo. Mi smarrisco a Katowice, eppure questa è la città dove sono nato e in cui ho trascorso la mia infanzia. Non riconosco la piazza del mercato. La ricordavo quadrata e piccola. Invece è rotonda e grande. Mi rammentavo bassi palazzi, grigi e neri dalla fuliggine; ora mi ritrovo tra alti edifici bianchi. Le rotaie del tram sono in mezzo, sull’asse nord-sud, e non sul lato meridionale sulla traiettoria est-ovest. È mezzanotte e io attraverso questo spazio, lo spazio della piazza che credevo di conoscere bene - nonostante non l’abbia vista per oltre cinquant’anni - ma che ora mi fa paura; sono di fretta e con passo incerto, guardingo, disorientato come un turista qualunque, curioso della novità, ma desideroso di trovare finalmente l’albergo, ansioso di vedere il letto nel quale sono destinato a dormire stanotte. Voglio dare, come un turista qualunque, per qualche ora, una parvenza di stabilità alla precarietà del viaggio. E infatti sono un viandante: nello spazio e nel tempo.

Da dove cominciare? Forse dalla cosa più ovvia, dal mondo scomparso. Dal pianeta, popolato da milioni di ebrei, annientato in pochi mesi, e di cui è rimasto poco o niente: qualche fotografia, un reticente racconto, spezzoni di narrazione. È incerta la memoria: popolata dai fantasmi che ogni mattina si presentano un po’ prima del risveglio, in quel tempo sospeso e precario, appena dopo che sono svaniti i sogni ma prima che si sia desti. In quegli istanti il dolore, il quotidiano dolore è indicibile.
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Finita la guerra, svelata la fine del mondo, c’era un vuoto nella vita dei due superstiti, mio padre e mia madre. Loro erano due ebrei polacchi, fuggiti nel 1939 in Russia. Così si salvarono dalla catastrofe. In Russia ebbero una figlia, morta di stenti. Poi, sempre in Russia, ne nacque un’altra, mia sorella. Ambedue, per quanto possa sembrare strano, erano figlie della speranza. L’apocalisse senza redenzione i miei genitori non l’avevano ancora vista. Ma quando, nel 1946, tornarono in Polonia, il paesaggio delle macerie era davanti ai loro occhi. Il presente significava il vuoto. Quel vuoto doveva essere riempito. Ma di che cosa? Di fiducia nell’avvenire? Di lotta per un posto sulla terra e per un mondo migliore? E la memoria? Che cos’era la memoria, se non una variazione dell’oblio?
Il libro
'Il bambino nella neve', la storia terribile negli occhi di un bambino
2/5/2016

O forse quel vuoto, la mia è un’ipotesi, veniva riempito sistematicamente da una memoria che non era altro che la rimozione del ricordo: per sfuggire ai sensi di colpa e per darsi una ragione per proseguire la vita in un paese e su una terra altrimenti irriconoscibili. Mancavano le persone: i fratelli, le sorelle, i vicini di casa. Era scomparso ogni segno di vita: bruciate le sinagoghe, distrutti quartieri delle città, svuotati i villaggi, disfatti i cimiteri. Un terremoto. Salvo che il terremoto non c’era stato. C’è stata l’apocalisse, fatta da esseri umani - i nazisti e i loro complici che non volevano condividere la terra con altri esseri umani, gli ebrei. E l’apocalisse non riguardava tutti gli abitanti del paese, ma una parte di loro. Un terremoto e un cataclisma meditati, quindi. Il paese, la Polonia, ha continuato a esistere, ma mutilato, e i miei genitori erano un moncherino di una vita spenta e condannata all’eterno oblio. In fondo, questo era il significato dell’opera compiuta dai nazisti: la cancellazione del ricordo e della memoria, come se gli ebrei, in Polonia, non ci fossero mai stati.

C’era una pesante cortina a separare noi, la famiglia, dal passato. Non era una cortina di ferro, ma una cortina fatta di un infrangibile vetro opaco; per cui la memoria (quando c’era) si presentava, e inevitabilmente, sotto forma di ombre, di silhouette, abbozzi di corpi umani incompiuti e dai contorni sfumati. E le foto, le pochissime foto salvatesi per miracolo, le ho viste tardi. Da bambino non riuscivo a immaginare i volti di coloro che popolavano gli incubi dei miei genitori né sapevo come erano fatti gli oggetti usati in quel mondo che aveva cessato di esistere. Avevo invece dimestichezza coi volti dei carnefici e usavo, ogni giorno, gli oggetti a loro appartenuti. Ne parlerò.

Ora quindi, nel mezzo di una notte d’autunno a Katowice, nella precarietà del ricordo (ma davvero ho mai vissuto in questa città? O forse è tutta un’invenzione, una leggenda), cammino per le strade vuote e buie. C’è giusto una prostituta in giro. È bella, giovane e bionda. Ha la faccia buona, gli zigomi alti, la bocca larga, gli occhi brillanti. Ha uno sguardo tenero che infonde fiducia. Sembra stupita quando le chiedo dell’albergo.
«Non sono di qui», risponde.
«Probabilmente nessuno mai e in nessun luogo è di qui», dico per consolarla.
Lei scuote la testa, nei suoi occhi c’è il sospetto di aver a che fare con un pazzo, o almeno forse un ubriaco. Sicuramente non ha voglia di discussioni filosofiche. Si ricorda di aver abbandonato per me il cliente, lui sì, in evidente stato di ebbrezza, che tenta sulle gambe malferme e con le mani tremanti di ritirare i soldi dalla fessura del bancomat. Abbraccia l’uomo grassoccio e molle, lo tira verso il suo corpo, ride a voce alta, poi gli dice qualcosa all’orecchio e si mette a camminare, ancheggiando e trascinando l’uomo chissà verso quale antro buio, o forse verso un’altra camera d’albergo, un luogo dove consumare l’amore, l’affetto, un sentimento fugace, in fretta.
Mi viene in mente la ballata “Amori a ore” che cantava Bulat Okudžava, poeta russo e georgiano. Lo amavo da adolescente, e continuo ad ascoltare le sue canzoni. Era figlio di comunisti e dissidente, un protagonista del cinema sovietico, adorato dagli anticomunisti; sospeso tra l’ambigua nostalgia dei tempi d’oro e il feroce presente, tra le mille cangianti e mutanti identità. Un poeta russo sovietico amato da un giovane polacco. O forse lo amavo perché ero un ragazzo ebreo e figlio di comunisti?
Ma ecco che il comunismo irrompe sullo schermo del televisore nella mia stanza d’albergo. L’hotel era a poche decine di metri da dove mi sono perso, bastava saper leggere la cartina fornita da Google. Sono le due del mattino. La tv ripropone il notiziario del giorno che fu, come se volesse mettermi al passo con il tempo perduto. Nel telegiornale si racconta di un fatto accaduto in una città a nord del paese. Un ex procuratore militare è stato sepolto con gli onori militari, appunto. Cosa c’è di strano?, direte. Ebbene il magistrato, nei primi anni Cinquanta, fece condannare a morte una ragazza diciassettenne, colpevole di far parte di un movimento di Resistenza antinazista sbagliato. Sbagliato allora, ai tempi dello stalinismo, oggi invece celebrato come esempio di eroismo patriottico. La ragazza faceva parte dell’Armata dell’Interno, gruppo subordinato al governo polacco in esilio a Londra.

Finita la guerra, arrivati al potere i comunisti, i militanti dell’Armata dell’Interno sui manifesti affissi nelle città venivano descritti e raffigurati come “lo sputacchiante nano della reazione” battuto da un gigante comunista e proletario. Molti militanti finirono in galera, accusati di collaborazionismo con i nazisti. Alcuni furono condannati alla pena capitale, come la ragazza diciassettenne di cui parla il telegiornale in questa notte del mio smarrimento a Katowice.

«Questioni di protocollo», si giustifica in tv il generale che comanda le truppe di stanza in quella città, «il procuratore era un ufficiale di alto rango, del suo passato non sapevo niente e non stava a me indagare».
Io, invece, sul passato indago; non per rendere giustizia ma, al contrario, per affacciarmi senza speranza su una voragine. Esiste una bella parola ebraica, “Tikkun”, significa la riparazione del mondo. Ecco, io penso che dopo la Shoah non è possibile il Tikkun: il mondo rimane e rimarrà senza riparazione.