Un gioiello di architettura abbandonato al degrado. È una delle tante opere ?realizzate a Istanbul dall'architetto friulano. E appartiene allo Stato italiano

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Raimondo D’Aronco (1857-1932) è senza dubbio tra le personalità di maggior spicco dell’architettura Liberty in Italia e l’unica che ebbe sufficiente fiato per inserirsi nel dibattito architettonico internazionale. Era nato a Gemona, prima allievo e poi docente all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Non stenta a farsi presto conoscere e ad affermarsi come uno dei massimi progettisti per le grandi Esposizioni, come quella internazionale di Torino del 1902. Ma nel 1893 è chiamato a Istanbul dove vive fino al 1909 per ricoprire l’incarico prestigioso di Sovraintendente generale.

D’Aronco ebbe la committenza del Sultano, come nella favola di Aladino: ed in verità la sua lampada la trovò. La città delle cento moschee, dei giardini e delle antiche case di legno che s’affacciano sul Bosforo divenne il suo privilegiato topos. I disegni più felici sono intrisi dell’oro delle cupole a mosaico delle moschee, palpitano delle luci che piovono sui marmi cesellati come merletti; una architettura che a Istanbul assume un fulgore inedito.
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A Vienna aveva familiarizzato con la Wagnerschule. Il suo storicismo eclettico macina, scompone e ricompone in un incessante carosello e il suo repertorio abbraccia tutto il variegato campionario della cultura tardo-ottocentesca. Sono esperienze con cui la sua opera ha convissuto: a quarantacinque anni aveva già realizzato il meglio della sua produzione. Assimila non solo dal gusto mitteleuropeo, ma dalle nuove tecnologie del cemento armato di Auguste Perret.

D’Aronco non poté seguire la costruzione dell’Esposizione internazionale di Torino. L’architetto era impegnato nei suoi lavori a Istanbul: qui, a parte grandi commesse per opere pubbliche, assumono particolare rilievo alcuni progetti come quello per Casa Santoro (1907). Di sapore perretiano è il progetto, dello stesso anno, per la casa in rue Anadol. Qui i partiti compositivi sono di una insolita sobrietà che sembrerebbe preludere a esiti protorazionalisti.

Nella storia plurisecolare dei rapporti culturali fra Italia e Turchia - ma anche fra l’Europa e il mondo ottomano e Islam - l’esperienza di D’Aronco, rappresenta un patrimonio unico. D’Aronco fu invitato in Turchia per lavorare all’allestimento di una grande esposizione ottomana prevista per il 1896; ma il grande terremoto del 1894 convinse il sultano a desistere dal progetto, e a impegnare D’Aronco nel restauro delle architetture danneggiate dal sisma.

Questo gli permise di assorbire forse più di ogni altro architetto occidentale attivo a Istanbul i caratteri della tradizione bizantina e ottomana sia monumentale che residenziale. D’Aronco lavora per una élite ottomana più o meno occidentalizzata, per il sultano, per la borghesia cosmopolita di Pera, e per lo Stato italiano.

La facciata della casa Botter, nel cuore del quartiere cosmopolita e levantino di Pera (Beyoglu), progettata nel 1901, è in stato di avanzato degrado. Da anni sarebbe pronto un progetto di restauro ma non è stata presa una decisione sulla futura destinazione.

Molti edifici dello stesso contesto si sono salvati attraverso la loro trasformazione in strutture ricettive. Il valore di questi interventi di recupero è spesso discutibile, e anche se alcuni sono più attenti e corretti di altri, la tendenza in sé rischia di trasformare Beyoglu, uno degli ambienti urbani più dinamici e ricchi di diversità e stratificazioni culturali al mondo, in una sorta di villaggio turistico. La crisi attuale del turismo in Turchia rende questo tipo di riuso meno “sostenibile” anche economicamente.

Fra i progetti ufficiali di D’Aronco, i suoi interventi sul complesso imperiale di Yildiz, cittadella del potere che il sultano creò in varie fasi, e con il contributo di diversi architetti, sono forse la parte meglio conservata - anche se troppo restaurata - della sua opera nella capitale, fornendo una originale versione della modernità ottomana. Per un leader religioso molto vicino al sultano, Seyh Zafir, D’Aronco progetta nel 1903 un complesso funerario con fontana e biblioteca, un piccolo capolavoro di sintesi fra tipologie funerarie ottomane e Secessione. Sulla sponda asiatica della città, la scuola imperiale di medicina, progettata da D’Aronco, è oggi sede dell’Università di Marmara e, nonostante alcuni interventi discutibili, mantiene la sua funzione e la sua immagine.

In questo panorama di eccellenze architettoniche italiane in vario stato di conservazione, il capolavoro forse più straordinario, ma certamente il più trascurato e in disperate condizioni, è quello che ancora appartiene allo Stato italiano: la villa in legno sulla riva europea del Bosforo, nel sobborgo residenziale di Tarabya. Progettata gratuitamente da D’Aronco nel 1905 come sede estiva dell’ambasciata d’Italia a Istanbul, fu costruita da maestranze italiane.

Il progetto assimila a fondo la tradizione locale della carpenteria lignea, sulla quale D’Aronco ha innestato stilemi italiani (il portale bugnato), ottomani (gli sbalzi audaci e la decorazione delle falde del tetto) e moderatamente Art Nouveau (nel disegno della facciata). L’edificio è rimasto privo di gran parte della sua funzione dopo il trasferimento della capitale ad Ankara.

Veniva usato saltuariamente fino a circa cinquanta anni fa. Il degrado è iniziato alla fine degli anni Ottanta con le prime infiltrazioni, per le quali si sono presi provvedimenti provvisori. Innumerevoli i tentativi di salvataggio, con ipotesi svariate di riutilizzo più o meno idonee: spesso accompagnate da interrogazioni parlamentari e da campagne con centinaia di firme illustri, sono naufragati nel nulla per impedimenti burocratici e finanziari, e indecisione sulla nuova destinazione.

Il legno oggi è in gran parte marcito, e gli sbalzi più audaci delle coperture sono crollati. Le deformazioni preoccupanti della struttura avevano convinto a suo tempo l’ambasciatore Surdo (2003) a erigere impalcature esterne e opere di puntellamento all’interno. Anche un progetto per il tetto fu preparato, ma non eseguito: i fondi stanziati da Roma non giunsero.

Ora villa Tarabya potrebbe fare parte di una costellazione di edifici sul Bosforo il cui valore storico, paesaggistico e architettonico è inestimabile, mentre quello di mercato supera i 50 milioni di euro. Invece rischia di sparire per sempre. Lo stato di degrado è talmente avanzato che più che di restauro si deve a questo punto parlare, in parte, di ricostruzione. L’archivio di D’Aronco a Udine conserva i disegni del progetto, il che rende possibile un intervento ricostruttivo.

Altri edifici della diplomazia a Istanbul vengono usati come centri culturali o residenze. Ma sarebbe possibile salvare villa Tarabya senza destinarla solo ai Vip. La Turchia, nonostante le contraddizioni e le tensioni attuali, permette di ipotizzare progetti ad alto contenuto culturale.

L’ambasciata italiana di Ankara ha recentemente pubblicato sul suo sito web un invito, rivolto a enti, istituzioni e privati, per manifestazioni di interesse a prendere la villa in concessione, restaurarla e gestirla per un numero di anni da concordare. Nell’annuncio D’Aronco e la qualità dell’edificio sono evocati. Solo una selezione rigorosa delle proposte da parte di una commissione internazionale altamente qualificata, può garantire che non si svenda o che non si distrugga questo patrimonio unico al mondo. Il governo italiano, proprietario di questo capolavoro, ha il dovere di levare la sua voce e intervenire.

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