L'autore di "Woobinda e altre storie senza lieto fine" interviene nella discussione aperta da Paolo Di Paolo. Con una rivendicazione. E un'accusa durissima al tempo presente

Lo scrittore Aldo Nove
Oggetto del contributo di Aldo Nove alla polemica avviata sulle colonne di questo giornale da Paolo Di Paolo, dopo l’encomiabile replica di Valeria Parrella, sarà innanzitutto Aldo Nove. Scrittore che forse Paolo di Paolo non conosce, e che da oltre vent’anni interviene in modo molto diretto, per non dire violento, proprio sulla cosiddetta “realtà” nostra. Così come fecero i cosiddetti “Cannibali”, ultimo fenomeno letterario italiano e che Di Paolo salta a piè pari.

Trovo completamente sbagliate le premesse metodologiche e l’assunto, così come falsificato è il quadro generale che Di Paolo evidenzia. Insomma si lamenta di ciò che non c’è perché non vede. Lui. Perché non sa quanto mutabile (e oggi in particolare a una velocità insostenibile) sia la concrezione di quello che Lacan definiva “l’impossibile”, ossia il reale. Dicevo che avrei parlato innanzitutto di me. Con il mio libro d’esordio, “Woobinda e altre storie senza lieto fine”, ho descritto l’Italia che, 20 anni fa, cambiava per sempre. L’ho fatto con nomi e cognomi. Sono stato il primo a scrivere, con “Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese”, nel 2004, di precariato, con un libro reportage fondato su una selezione di 100 interviste, quando di precariato non parlava nessuno. E ho sempre parlato del presente. Anche quando ho descritto la vita di San Francesco, cercando di dimostrare quanto il XII secolo fosse attraversato da pulsioni sociali innovativi e da millenarismi che oggi ritornano. Nel mio libro in uscita il 12 maggio, “Anteprima mondiale. Woobinda 2016”, torno a fotografare il presente, quello attualissimo del 2016. E lì si parla di Crozza, di Mario Monti, di Is, e di tutto quanto a Paolo di Paolo farà piacere che si parli.

Quello che sfugge è quanto sia complesso oggi definire un processo di mutazione antropologica quando ci si adagia in una categoria (mettiamo pure del realismo, del verismo, dell’interventismo o di qualunque altro ismo a piacere si voglia usare per definire “l’impossibile” di cui ho detto sopra). È di un’ingenuità disarmante considerare attuale un romanzo, un racconto, un fumetto, perché parla di Gasparri. Pure, io, come il bravissimo Zerocalcare, lo faccio. Ma non certo attraverso questa sorta di tassonomia del circo politico attuale creo una qualsivoglia forma di valore aggiunto per comprendere cosa sta succedendo. Mancano innanzitutto quelli che un tempo furono i “presidi culturali” in grado di dare della letteratura una lettura subitanea e in grado di valutarne gli orientamenti.

L’appiattimento onnicomprensivo è ovvio che appiattisca anche gli scrittori, come del resto appiattisce i critici. In tale “wasteland” editoriale e culturale le strategie che lo scrittore può attuare sono molteplici. Esiste ad esempio un piano mimetico consapevole (e per questo mi autocito, visto che lo uso, come lo usa Niccolò Ammaniti, come lo usano Tiziano Scarpa e Raul Montanari) che esprime la X quale incognita del presente globalizzato a volte attraverso il recupero di uno sguardo diverso (bambino, adolescente) teso a creare proprio uno slittamento di prospettiva che crei un punto di vista altro. Un altrove. È ben difficile raccontare una realtà che più che fluida è ormai completamente evaporata, azzerata la memoria strategicamente gestita nell’ottica del frammento annichilente ogni coscienza (di classe, ma anche di semplice identità: vedi alla voce “Europa”). Sono passati eoni dai tempi di Moravia e Pasolini.

La mia generazione è una generazione di scrittori che hanno vissuto la “cattiva magia” di una finanziarizzazione del reale tale da rendere il subprime un elemento costitutivo dell’anima. La truffa domina in un modo che continuiamo a fingere essere gestibile. Ma non lo è. Non lo sono gli anticipi degli scrittori ridotti a un decimo di quanto lo fossero prima della crisi, così come non lo sono le retribuzioni dei giornalisti avventizi che riempiono pagine di giornali piene di lettere subprime. Quelle letterarie comprese. C’è una sorta di etica del risparmio (economico) e del calcolo (al ribasso, economico) che colpisce con una violenza mai vista, dal Dopoguerra a oggi, gli scrittori e gli addetti ai lavori (tranne le pochissime eccezioni che confermano la regola). Giulio Einaudi stipendiava i suoi autori a prescindere da quanto vendevano. Oggi “devi vendere”. Va tutto a bilancio. Prima viene il Pil. Così come l’abbattimento delle contrapposizioni ideologiche non fa altro che lasciarci galleggiare nel mare di finzioni in cui un potere unico quanto acefalo e violento ci impone, fino a che non diventa parte di noi stessi. Insomma, non ci sono anime salve.

Tornando a me (l’oggetto principale di questo mio intervento, dicevo) posso propormi il rigore etico della sincerità, non certo quello della realtà e tantomeno della verità proprio per i limiti oggettivi di cui parlavo prima. E siamo in tanti a farlo. Nomi ne ha già fatti Valeria Parrella. E parecchi se ne potrebbero aggiungere. Come quello di Carmen Pellegrino che ha descritto, nel suo splendido “Cade la terra”, una marginalità italiana che letteralmente frana. Case e anime che franano. Adesso. In un presente che crolla. Rialzarlo con un’operazione di camouflage sarebbe fingere che l’apocalisse non si è compiuta, che vent’anni di berlusconismo non ci hanno cambiati del tutto e che nemmeno più sappiamo, oggi 2016, di che nazionalità siamo. Negli anni del renzismo in cui il primo presidente del Consiglio della generazione subprime, non eletto da nessuno e sorretto solo dal suo ego adultolescente (termine coniato da uno dei più acuti scrittori della generazione degli attuali quarantenni, Danilo Masotti: lo conoscete?) pubblica libri che hanno titoli come “Tra De Gasperi e gli U2. I trentenni e il futuro”... Ecco: tra De Gasperi e gli U2 non c’è un percorso. C’è un salto quantico. Qualcosa d’impossibile che si è però imposto.

Una truffa culturale che chi scrive ritiene più interessante da raccontare della stessa realtà di infimo grado che questa truffa ha generato e ogni giorno rigenera. Da De Gasperi agli U2 non c’è nulla. Come il nulla che disperatamente rincorrono i vertici delle (anche qua il plurale è un subprime) case editrici maggiori, alla ricerca della biografia del cuoco dell’istante o delle confessioni dell’amante dell’attore dello scorso momento. Una realtà a rischio di insolvenza come quella che viviamo noi non può che produrre una letteratura (e una critica) a rischio d’insolvenza, caro Di Paolo. Non essere in grado di percepire questo vuole dire non rendersi conto del lavoro pazzesco che in tanti fanno per resistere quel minimo che è oggi concesso.

Erano belli i tempi in cui Berlusconi si vantava di essere diventato proprietario della casa editrice storicamente a lui più avversa (l’Einaudi) lasciando ad essa mano libera. È stato così fino a che la mutazione antropologica non si è realizzata del tutto e abbiamo introiettato decenni di “realtà” alterata, fino alla creazione di una classe dirigente più realista del re.

Lo scrittore, infine, non è un avatar disceso sulla terra e nemmeno un profeta biblico che maledice a beneficio dei secoli futuri l’insubordinazione di Gerusalemme al Dio dei giusti. Lo scrittore è, come proprio Brecht diceva, figlio del proprio tempo. E proprio lui citando, nella traduzione sarcastica di uno che di linguaggio e ideologia la sapeva lunga, Edoardo Sanguineti: «Scusateci, a noi, per il nostro tempo».