Basta con critici e studiosi. Oggi le grandi istituzioni dell'arte si affidano sempre più spesso ?a scultori e videomaker. Da Jankowski a Vezzoli, nomi e motivi di una nouvelle vague

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"Sono un artista di 48 anni che insegna a Stoccarda e vive a Berlino. Per tutta la vita sono passato da un’opera all’altra e da una mostra all’altra, ma ora eccomi all’improvviso trasformato da artista in curatore, al governo di un’importante biennale, con un enorme apparato, tanta gente che lavora per me e un grande ufficio ad Amsterdam». Parla Christian Jankowski, autore multiforme e multimediale, creatore di progetti, installazioni e video provocatori e ironici. La biennale in questione è Manifesta, la più radicale d’Europa, rassegna itinerante che quest’anno (fino al 18 settembre) ha trovato casa a Zurigo. E il tema che Jankowski ha portato al centro del dibattito è proprio “il lavoro” inteso come destino, identità, camicia di forza delle nostre abitudini e delle nostre menti.

«Il lavoro», ci dice ancora «è molto di più di un mezzo per guadagnare soldi. È qualcosa che entra nelle nostre cellule, modifica i nostri corpi, la percezione che abbiamo di noi stessi e quella che gli altri hanno di noi. A seconda della professione che eserciti finirai per cambiare i tuoi comportamenti: parlerai come un professore, ti muoverai come un modello, viaggerai come un uomo d’affari, berrai come un barman e penserai come un banchiere». Quindi il nocciolo della questione e la domanda fondamentale per lui e tutta Manifesta è “What people do for money?”. Letteralmente: «Cosa fa la gente per i soldi?». Concettualmente invece: «Cosa facciamo davvero e come ci trasformiamo davvero per guadagnarci il pane?».
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C’è un solo modo per saperlo: cambiare lavoro o perlomeno metodo di lavoro. Ed è così che Jankowski nelle vesti di curatore ha scompigliato le carte e impostato la sua biennale sullo scambio di ruoli tra artisti e altri lavoratori nella svizzera Zurigo, unica città al mondo dove la parola “Chrampfer” (stakanovista) suona come un complimento. Orologiai, dentisti, vigili del fuoco, barcaioli, insegnanti, cuochi, hostess, traduttori, meteorologi e personal trainer per tre mesi lavorano a fianco di un artista producendo qualcosa di diverso eppure di connesso alle loro professionalità. Dall’altra parte, l’artista impara a fare opere usando bilancieri, protesi dentarie, cibo e previsioni del tempo. Oppure, nel caso del direttore, a fare un’opera con le opere degli altri.

Jankowski non è il primo né tanto meno il solo. Nell’ultima stagione artistica tra nomine ed esposizioni si è assistito a un’epidemica rivoluzione dei ruoli. Mentre lui a Zurigo guida Manifesta, al Musée d’Art Moderne di Parigi il raffinatissimo concettuale olandese Jan Dibbets in vesti curatoriali mette in scena una sua personale interpretazione del rapporto tra arte e fotografia. La titola “La boîte de Pandore”, la sottotitola “une autre photografie” e mescola immagini scientifiche, geografiche, astronomiche a opere di artisti da Bragaglia ai giorni nostri.

Al Museion di Bolzano, invece, Francesco Vezzoli ha recentemente ricoperto entrambi i ruoli: in un piano del museo è artista con mostra di nuove opere, nell’altro “guest curator” con licenza di rileggere in chiave totalmente personale l’intera collezione. La fondazione Prada a Milano sembra poi sposare con entusiasmo l’arrivo di questa bicefala creatura.

Fedele alla mission dichiarata fin dal sito («arricchire la nostra vita quotidiana, aiutarci a capire i cambiamenti che avvengono in noi e nel mondo le idee, e i modi in cui l’umanità le ha trasformate in discipline: letteratura, cinema, musica, filosofia, arte e scienza…») la fondazione apre le braccia all’eccezionale prova d’autore-curatore-artista, ma anche collezionista-architetto-designer messa in scena da Goshka Macuga, geniale artista polacca che ingloba opere di Fontana e Giacometti, libri rari e robot di ultima generazione che declamano testi filosofici.

Contemporaneamente in un’altra ala della cittadella Prada, Thomas Demand, fotografo/artista finora soprattutto costruttore e ricostruttore di spazi iconici, mette in scena “L’immagine rubata”, divertente e intelligente indagine su furti pittorici, scultorei o concettuali tra celebri suoi colleghi. Per non parlare poi di esempi di poco più vecchi come il celebrato e discusso “Shit and Die” di Maurizio Cattelan a Torino (2014) o il simbolico percorso di opere antiche e recenti con cui Dahn Vo per nove mesi (aprile 2015-gennaio 2016) occupa l’intera Punta della Dogana a Venezia.

Ma se per questi esperimenti si può creare una categoria di “mostre-opera” ben diverso è affidare ad artisti la responsabilità di intere Biennali. Eppure…. Nel 2017 (Erdogan permettendo) la 15ma Biennale di Istanbul sarà firmata da Elmgreen&Dragset, due artisti scandinavi che arrivando dal teatro e dalla narrativa approdano a una ricerca assolutamente originale, basata su messe in scena dalle atmosfere allucinate che sfiorano la suspence di un thriller.

Già curatori di se stessi e autori alla Biennale di Venezia di un famoso padiglione dei Paesi Nordici dedicato alla misteriosa morte di un collezionista, i celeberrimi due di fronte alle inquietanti vicende turche si sono chiusi in un totale riserbo, rimandando alla conferenza stampa di autunno ogni informazione sulla loro rassegna e qualsiasi considerazione politica. Il mondo dell’arte ha aperto il dibattito infiammato dalla domanda: «Dopo il fallito golpe e la repressione in Turchia Elmgreen&Dragset devono dimettersi?». Quesito che però ha subito esteso l’incendio al dilemma successivo: «Ma a che cosa si deve questa invasione di artisti che rubano il mestiere ai curatori?»

Già, perché finora il curatore sembrava un deus ex machina. Poliglotta, globe-trotter, informatissimo su qualsiasi emergente in qualsiasi parte del pianeta, figura a metà fra management e invenzione, amico dei galleristi e dei più possenti collezionisti, sempre in bilico fra la coerenza culturale e il bisogno di intercettare i gusti del visitatore, questo eclettico professionista aveva già negli anni Novanta defenestrato il vecchio critico sostituendo all’approccio teorico la scrittura visiva e alla rubrica su un giornale un’aforisma su Twitter.

Era l’uomo giusto nel posto giusto: il mondo dei grandi musei, delle super-fiere, delle mega mostre che devono conquistare pubblico e media creando quello star system dell’arte necessario alla loro ipertrofica sopravvivenza. Ma ad ascoltare Germano Celant, presidente della Fondazione Prada e correo della grande apertura di credito all’artista/curatore, è proprio questa febbre che lo ha messo in crisi: «L’obbligo di scovare continuamente nomi nuovi; il muoversi in culture spesso molto lontane dalla propria; una base scientifica sempre più debole: tutto questo alla fine ne ha depotenziato il ruolo. Se ormai l’interpretazione è puramente inventiva, se la mostra si basa su invenzioni e non sulla ricerca storica, se la vediamo ridotta a una lista di nomi, molti dei quali sconosciuti, allora è più interessante affidarla a un artista e alle sue licenze poetiche».

L’artista come abbiamo visto non si fa pregare. Entrare nella cabina di regia è molto più di un piano B. Allarga il potere d’intervento sulle proprie e altrui opere e in nome dell’aura che comunque circonda il suo nome permette cose normalmente vietate a un curatore. Come ci racconta Massimiliano Gioni a proposito di quella famosissima Biennale di Berlino del 2006 firmata insieme a Cattelan di cui ci ricorda «la costruzione di una finta e paradossale galleria Gagosian: se l’avessi fatta io mi sarebbe costata una querela, ma sotto l’ala di Maurizio diventava un’opera intoccabile».

E prosegue spiegando che «la forza di un artista è sempre nel sovvertire le regole, aprire imprevisti spazi di libertà, individuare nuovi territori per la cultura visiva, insegnarci a guardare anche altrove. Se non lo fa, se imita semplicemente il lavoro di un curatore, di solito fallisce. Se lo fa, se piega le opere altrui al suo progetto, se forza la mano e squaderna tutte le regole, sicuramente ci regala una nuova esperienza, ma allora non è un curatore: resta un artista».