In quel denso frammento temporale in cui dalle utopie del Sessantotto si è passati agli anni di piombo, i nostri quattro pionieri di Düsseldorf, con visionarietà estrema e effettiva predisposizione per la profezia, descrivevano un futuro che è il nostro presente
Sono tra i gruppi di musica pop più influenti della storia. Anche se nessuno ?o quasi li conosce. Si chiamano “Kraftwerk”, tedeschi doc. A loro è attribuita l’invenzione del pop elettronico. Pionieri del genere, hanno incominciato a usare strumenti elettronici, da loro stessi realizzati, alla fine degli anni Sessanta.
E mentre la storia, in quello svoltare di decennio, si immaginava ancora un futuro da “figli dei fiori”, in quel denso frammento temporale in cui dalle utopie del Sessantotto si è passati agli anni di piombo, i nostri quattro pionieri di Düsseldorf, con visionarietà estrema e effettiva predisposizione per la profezia, descrivevano un futuro che è il nostro presente.
Si sono sempre fatti chiamare “Kraftwerk, gli uomini macchina”, anche ?in riferimento a due dei loro maggiori successi, “The robots” e “The man machine”. A loro si sono esplicitamente ispirati David Bowie e Iggy Pop (che hanno entrambi dedicato loro dei brani, come ?del resto hanno fatto anche gli U2 ?e i Coldplay) ma anche Michael Jackson (che cercò invano di farsi produrre l’album “Thriller”) e via via i Depeche Mode, i Daft Punk fino alle insospettabili Madonna ?e Kylie Minogue.
Ma a noi interessa piuttosto seguire come abbiano sviluppato l’intuizione di un’integrazione tra l’uomo e la macchina tale da condurci a un processo di alienazione attraente quanto inquietante. Un futuro robotizzato in cui è l’essere umano stesso a diventare macchina. In un mondo in cui ?la macchina ha sempre di più sostituito l’umano, passando da ausilio alla sua esistenza a invasivo sostituto, in una sorta di realizzazione della profezia ebraica del golem e in direzione di una spersonalizzazione di cui la musica è stata ed è al contempo veicolo e vittima.
Torniamo a Düsseldorf, alla musica pop tedesca a cavallo degli anni Sessanta ?e Settanta. Nell’artisticamente (solo artisticamente) fecondo clima della Guerra Fredda, nelle sue contrapposizioni nette e nella percezione di una realtà divisa, la Germania di cinquant’anni fa orientava la sua ricerca artistica da una parte verso una sorta di razionalismo estremo, che ha potentemente investito architettura, pittura e musica “colta” mentre, sul piano della musica leggera, alle influenze anglosassoni e al rock globale provava a contrapporsi con ?un’autoctona “cosmic music” che fu appunto la chiave del cosiddetto “kraut rock”: gruppi come i Tangerine Dream e i Can cercavano di evadere dalla sempre più asfittica realtà di un mondo spaccato in due aprendosi alle vastità oniriche dell’universo e delle sue suggestioni.
I Kraftwerk optarono decisamente per un’altra strada: quella di dissezionare il presente nel momento della sua clamorosa mutazione antropologica e focalizzando l’attenzione sull’esistente. I loro primi album parlavano di alienazione, di un mondo dominato dalle macchine, in un tribalismo elettronico che fu, decenni dopo, la chiave della dance elettronica e del minimal. Ma con un elemento in più: quello profetico, dicevamo.
Nel 1978, sconvolsero tutti presentandosi (o meglio, non facendolo) a una conferenza stampa per il lancio di un loro nuovo disco facendosi sostituire da dei robot (allora, visto i tempi, invero alquanto rozzi). Il mondo dei Kraftwerk è un mondo completamente spersonalizzato e dominato da computer e uomini ridotti a macchina. Un mondo in cui la minaccia nucleare domina su una società che ha già perso la propria cifra umanistica e la scommessa con la propria millenaria identità. Il tutto con una grande ironia di ascendenza chiaramente derivante dal pop spersonalizzato di Andy Warhol e dalle sue tecniche di riproduzione meccanica delle opere d’arte.
Lo scorso anno, ?il Moma ha deciso, per la prima volta nella storia, di dedicare a un gruppo rock, i Kraftwerk, appunto, sette serate: una per ogni album, con sette spettacoli in 3D (diventate poi un tour mondiale) in cui l’uomo macchina da loro profetizzato quarant’anni fa è stato definitivamente consacrato come emblema di uno status quo che ci spaventa e del quale sempre più facciamo, volenti o nolenti, parte.
Chi ha visto un loro concerto, dove a esibirsi sono dei robot e non degli uomini sotto un bombardamento 3D di numeri e algoritmi, tra scenari post-umani e canzoni dedicate a un mondo in cui le macchine hanno sostituito l’uomo ha potuto cogliere la potenza del mezzo musicale (e comunque artistico) per sintetizzare quanto molto più complessamente può essere espresso verbalmente.
Le braccia meccaniche dei loro sostituti on stage, gli occhi fissi e la glacialità della loro musica ripetitiva e sottilmente angosciante forniscono una sintesi perfetta del nuovo e apocalittico archetipo del post-umano. Quasi a preconizzare un mondo che non ha più bisogno di noi in quanto reso dai nostri stessi prodotti autosufficiente. Quello dei Kraftwerk è un mondo di (ex) divinità in esilio, sostituite dalle loro stesse creature, le macchine. Che si divertono, fanno musica, lavorano… Tutto (quasi) esattamente come noi. Ma senza?essere più umane: così come noi, specularmente, da un “dove” inedito, quasi olografico, ci percepiamo altro. «Metà essere, metà macchina», dicono? i Kraftwerk.