Diecimila anni fa, quando eravamo ragazzini, il nostro livello di ingenuità e di credulità si misurava attraverso le leggende metropolitane. Delle favole si occupavano i nonni e i genitori, delle leggende metropolitane si occupavano i compagni di classe, gli eventuali fratelli maggiori ?e gli amichetti. Puro passaparola, pura tradizione orale. Come ?i pettegolezzi cantati da De André, quelle strane storie volavano di bocca in bocca fino a diventare patrimonio collettivo: scaglia ?la prima pietra, caro over 40, ?se non hai mai sentito nominare ?il coccodrillo albino gigante (appostato nelle fogne di New York) o la strage dei Rockets (uccisi dalla vernice argentata)!
Potevamo fidarci, potevamo esitare: tutto dipendeva dal talento del narratore e dalla soglia del nostro candore. Era un gioco. Era una questione di emotività, non d’intelligenza, e sembra impossibile che oggi, a tanta distanza da un’epoca pre-digitale e ipo-mediatica, il mondo pulluli ?di gonzi molto più disarmati di noi. Non a caso, il vecchio meccanismo delle leggende metropolitane ha perso la propria natura inoffensiva, rinascendo sotto forma di bufala, e i nuovi narratori, invece di narrare, vanno a caccia di polli da truffare!
Noi eravamo ingenui, creduloni ?e privi di Google, sì, ma non eravamo né distratti né stupidi. ?E al coccodrillo gigante siamo ancora affezionatissimi.