Un secolo dal Palazzo d’Inverno

Ezio Mauro e la Rivoluzione russa da grande cronista

di Wlodek Goldkorn   7 novembre 2017

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Il suo 'L'anno del ferro e del fuoco' è un racconto degli eventi di un secolo fa lontano dai miti ideologici. Per capire davvero ciò che è stato

Da uomo schivo e signore dell’understatement, quando parla del suo L’anno del ferro e del fuoco. Cronache di una rivoluzione, Ezio Mauro dice di aver fatto semplicemente «il cronista degli eventi accaduti cent’anni fa». In realtà il libro è un romanzo russo; una narrazione sulla fine di un mondo o forse su una specie della fine del mondo; e che contrariamente a quanto si è pensato per lunghi decenni, non ha prodotto alcun mondo nuovo.

Il testo trae spunto dalla serie di reportage pubblicati nel corso di quest’anno su la Repubblica, quotidiano che Mauro ha diretto per vent’anni, ma soprattutto di cui era corrispondente a Mosca, dal 1988 al 1990. In quegli anni Mauro, da cronista di una attualità così stringente da diventare Storia mentre il suo giornale andava in stampa, ha vissuto da vicino un’altra fine del mondo, un altro dissolvimento di uno Stato, quello sovietico, che si voleva ontologicamente eterno, in quanto avanguardia di un radioso futuro.

La perestrojka di Gorbaciov era al suo apice, ma il tentativo di radicale trasformazione del potere finì in una piccola (perché con pochissimo spargimento di sangue) catastrofe; l’Urss cessò di esistere. E dalle sue ceneri risorse la vecchia e davvero eterna Russia. Mauro confessa di aver il rimpianto per non aver assistito a questa fine (fu chiamato alla Stampa nel 1990), e questo libro è anche una riparazione dell’incompiuto.
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“L’anno del ferro e del fuoco” è un romanzo russo perché narra con una prosa convincente una serie di vicende di uomini superflui. E l’uomo superfluo, un individuo che non trova il suo luogo nel contesto della storia, anzi nella cornice della modernità che sta minacciando la stabilità dell’autocrazia zarista e delle strutture sociali e del background culturale della Russia, è uno dei temi prediletti della letteratura tra Mosca e San Pietroburgo a partire dall’Ottocento. L’uomo superfluo niente può contro il flusso della Storia.

Si dirà: ma se Mauro parla della Rivoluzione, della trasformazione dei sudditi in cittadini e poi addirittura dell’instaurazione del comunismo dove ciascun uomo e donna (ma prima ciascun proletario) debba diventare soggetto della storia, come mai il tema dell’uomo superfluo? Non è forse vero che la Rivoluzione avrebbe dovuto eliminare dalla faccia della Terra tutto ciò che è superfluo e che non contribuisce alla felicità degli umani? Così narrava il mito bolscevico, un mito non del tutto defunto.

Ora, per dovere dell’onestà: Mauro del mito del bolscevismo non parla, anzi nella sua narrazione per certi versi ne decostruisce le premesse (ci torneremo) e con l’interlocutore insiste che non era suo intento scrivere un romanzo. E tuttavia: prendiamo come primo esempio Aleksandr Kerenskij. Di undici anni più giovane di Lenin, nato nella stessa città, Simbirsk da cui proveniva il leader e simbolo dei comunisti; premier del governo repubblicano, massone, socialista, di lui raramente si parla a lungo nei libri che divulgano la storia; quasi fosse solo il protagonista di un episodio di breve durata e di nessun significato.
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Anzi, ancora oggi, non di rado si possono incontrare persone (colte) convinte che la Rivoluzione d’Ottobre abbia abbattuto il regime zarista e non abolito invece un tentativo di instaurare la Repubblica. Mauro invece su Kerenskij si sofferma a lungo. Lo racconta come un uomo che in termini attuali scambia “marketing per politica”: è pieno di sé, ragiona come se lo spazio pubblico fosse un immenso teatro; ma in fondo, è un uomo del passato, un rivoluzionario fallito perché incapace di collocarsi nelle impetuose trasformazioni del presente. Soccombe senza aver capito niente di quello che stava succedendo, perché viveva in un passato che non contemplava (se non come retorica) il futuro. Ecco, un uomo superfluo.

Superfluo è sicuramente lo zar Nicola. Il giorno in cui scoppia la rivoluzione di febbraio, annota nel suo diario: «È stata una fredda giornata di sole». Le pagine in cui Mauro racconta la sua decisione di abdicare nel treno fermo non lontano dalla cittadina di Pskov, sono un testo che dialoga con la grande letteratura. E non solo per lo scavo nella psiche dell’imperatore che sta perdendo il mondo, ma anche per l’ambientazione, nello spazio russo, lo sterminato, sconfinato, terrorizzante spazio, senza confini e senza limiti fisici e quindi senza freni etici. Dice l’autore: «Gli amici russi mi dicevano, inutile andare a Pskov; lì non c’è niente. E invece gli abitanti mi hanno raccontato come i vecchi del luogo narravano della paura dello zar. I luoghi conservano la memoria».
Superfluo, ma fino a un certo punto è Vladimir Lenin. Il capo dei bolscevichi vive in clandestinità. L’azione militare che spodesta il potere repubblicano è preparata con minuzia da Lev Trockij.

È lui, raffinato scrittore e intellettuale, più giacobino che vero comunista (l’interpretazione è nostra) a escogitare una tecnica golpista, più tardi oggetto dell’ammirazione di Curzio Malaparte, per cui non vengono attaccati frontalmente i centri simbolici del potere, ma si paralizzano le strutture portanti e di comunicazione. La presa del Palazzo d’Inverno è una ciliegina sulla torta in una San Pietroburgo già in mano ai bolscevichi. Lenin lascia il suo nascondiglio a cose fatte. Trockij gli offre tutto lo spazio, perché è lui, Lenin, il titolare della ditta. L’essere superfluo di Trockij invece si rivelerà più tardi e tragicamente, respinto ai margini del potere, esiliato e infine assassinato. E si potrebbe continuare con questo elenco, menzionando Kornilov, il generale golpista che volendo rafforzare Kerenskij lo indebolì ulteriormente: finì ucciso dai bolscevichi nel 1918.

Ecco, leggendo “L’anno del ferro e del fuoco” si ha la sensazione che tutti i protagonisti della storia narrata in fin dei conti sono dei perdenti. Certo, la società russa oggi non è più quella dei balli degli aristocratici negli splendidi palazzi di San Pietroburgo né dei frequentatori del Teatro Marinskij nei loro frac, mentre fuori proletari e soldati covavano odio e voglia di sanguinaria vendetta. Ma la Russia, l’eterna Russia è tornata. È incarnata da un presidente, Putin, che ha introdotto un linguaggio sincretico, tra simboli zaristi e quelli dell’epoca di Stalin. Sul luogo dove vennero assassinati Nicola e la famiglia (“Anche lì mi sconsigliarono di andare, visto che la casa dove vennero fucilati è stata distrutta. E invece la memoria del luogo mi ha parlato”, dice Mauro) ci sono turisti e pellegrini. L’impero è tornato.

Nella bellissima poesia “Il cavaliere di bronzo” Puskin racconta di un uomo che a San Pietroburgo rimprovera la statua dello zar Pietro il Grande di inaudita crudeltà. Tra varie traversie, finisce che la statua afferra l’uomo e lo uccide. E allora, non c’è scampo? Sì, suggerisce Mauro: nella poesia, nella letteratura, di cui parla molto nel libro. E dice che per capire la Russia, occorre leggere Mikhail Bulgakov, “Il maestro e Margherita”; tra Anticristo e voglia di riscatto.