La poesia (la buona poesia) traduce, meglio di tutte le altre arti retoriche, ?le immagini in parole e quindi sollecita l’azione del nostro immaginario e ci permette di pensare all’immortalità
In una recensione su una mostra ?di dipinti giapponesi, Walter Benjamin dice che nell’immagine c’è qualcosa ?di eterno. Simili sono le intuizioni dei teorici della fotografia: ciò che vediamo impresso sulla pellicola o in uno scatto digitale è il risultato di una congiunzione tra tempo, luogo e lo sguardo di chi fotografa; ogni immagine è come se abolisse la differenza tra il passato, il presente e il futuro. Ma la stessa regola vale per la parola, quando è usata dai poeti. E forse per questo, perché allude all’eternità e al tempo dopo il tempo, ?e non solo perché è una preghiera laica, la poesia, anche se vende poco, gode ?di ottima salute.
La poesia è lentezza, perché ogni ?parola deve essere esatta (nel senso che all’esattezza dava Italo Calvino ?in “Lezioni americane” dove cita “L’anguilla” di Montale) e precisa. ?Si racconta di poeti che attendono ?mesi finché sulla pagina non appaia l’aggettivo o il verbo giusto. La poesia non sopporta il parlar sciatto, non tollera la mancanza di attenzione, richiede uno sforzo meditativo. ?Non esiste poesia sbrigativa. La poesia permette l’uso di figure retoriche come sineddoche (una parte per la totalità), metafora, metonimia (il trasferimento del significato da una parola all’altra), senza per questo rendere il discorso demagogico, come accade ai politici.
La poesia (la buona poesia) traduce, meglio di tutte le altre arti retoriche, ?le immagini in parole e quindi sollecita l’azione del nostro immaginario e ci permette di pensare all’immortalità. Scrive Seamus Heaney, in “La spiaggia”: «Anche la linea punteggiata tracciata dal bastone di mio padre / sulla spiaggia di Sandymount / è qualcosa che la marea non porterà via». ?Ecco, la memoria vive più a lungo nella parola che nei monumenti di pietra.
Il poeta sovverte l’ordine stabilito. ?Non solo Neruda o Éluard, direttamente impegnati in politica. Quest’ultimo scriveva nel 1942 in “Libertà”: «Sui miei rifugi distrutti / Sui miei fari crollati / Sui muri del mio tormento / Scrivo il tuo nome». È un classico ormai il dialogo ?tra Josif Brodskij e i giudici sovietici: «Giudice: Qual è la tua professione? Brodskij: Traduttore e poeta. Giudice: Chi ti ha riconosciuto come poeta? ?Chi ti ha arruolato nei ranghi dei poeti? Brodskij: Nessuno. Chi mi ha arruolato nei ranghi del genere umano?». In un saggio, il Nobel russo spiegava come la poesia aiuti a resistere alle pressioni del potere, a non piegarsi, a non scendere ?a compromessi. Tutto questo, perché Brodskij, come pochi altri - e sulla scia di un grande maestro Osip Mandelstam, morto di fame in un Lager sovietico - sapeva quanto l’estetica fosse inscindibile dall’etica. E anche a questo serve la poesia, a capire che una cosa brutta non può essere buona.
La poesia trasforma i luoghi del quotidiano in entità mitiche e oniriche. Scriveva il polacco Zbigniew Herbert: «Rovigo non si distingueva per nulla ?di particolare / era un capolavoro ?di mediocrità strade diritte case non belle / (…) Eppure era una città in carne e pietra – come tante / una città ?dove qualcuno ieri è morto qualcuno ?è impazzito (...)».
E infine, la lentezza della poesia ci riporta alla lentezza dell’amore, e quindi di nuovo a qualcosa di eterno. Lo sapeva Mahmud Darwish, poeta palestinese che in “Una lezione di Kamasutra” cantava: «Se arriva in ritardo / aspettala, / se arriva in anticipo / aspettala / e non spaventare gli uccelli sulle sue trecce, (…) e parlale come il flauto / alla coda spaventata del violino, / (…) e aspettala / e leviga la sua notte anello dopo anello». Levigare ?è un’azione da artigiano che tende ?alla perfezione. Ecco, amiamo la poesia perché mette insieme il sogno e il quotidiano lavoro delle mani (lo intuiva meglio di tutti Wislawa Szymborska): alla ricerca dell’assoluto.