Anni di crisi tra alcolismo, denunce e accuse di razzismo. Il ritorno con "La battaglia di Hacksaw Ridge", un film violento ma pacifista, candidato a sei Oscar. L’attore e regista più controverso di Hollywood si confessa con l’Espresso
«Sono un povero diavolo, pratico poco e pecco molto, anche se vorrei tanto avere una fede incrollabile e una capacità di impegnarmi e di amare, perché l’amore è forse ciò che più di ogni altra cosa ci avvicina a Dio». Sembra una confessione più che un’intervista l’incontro con Mel Gibson per parlare di “La battaglia di Hacksaw Ridge”, il film in uscita nei cinema il 2 febbraio con cui l’attore australiano trapiantato a Hollywood torna alla regia a dieci anni di distanza da “Apocalypto”.
Il tema d’altra parte sembra aiutarlo: è la storia vera di Desmond Doss (interpretato da Andrew Garfield), cristiano avventista del settimo giorno che si arruolò allo scoppio della Seconda guerra mondiale, ma per motivi religiosi si rifiutò di imbracciare un fucile e mise in piedi una battaglia di principio con l’esercito per essere arruolato come medico da campo, anziché essere espulso per inadeguatezza.
«Ciò che mi ha colpito di questa storia e che la rende meritevole di essere raccontata», prosegue Gibson mentre si accarezza la lunga barba bianca, «è come Desmond sia andato al fronte e, disarmato, abbia affrontato situazioni orribili pur di salvare gli altri, di qualunque razza o credo religioso fossero. La cosa più difficile nella vita, con cui ho sempre combattuto, è superare i propri difetti e riparare alle mancanze e penso che una strada per farlo sia scegliere l’amore per il prossimo come ha fatto Desmond».
Il bisogno di redenzione che traspare dalle parole di quello che è stato uno dei sex symbol e una delle icone del cinema d’azione degli anni ’80, da “Mad Max” ad “Arma letale”, ma che a 60 anni assomiglia più ad un guru, deriva dal fatto che Gibson per un lungo periodo si è infilato in una serie di guai uno più grosso dell’altro, che ne ha demolito la carriera da attore. Accusato di essere omofobo, per un’intervista rilasciata nel ’90 a El País in cui derideva i gay, è stato bollato come antisemita quando ha girato “La passione di Cristo” nel 2004. L’offesa fu rispedita al mittente, ma quando fu arrestato nel 2006 per guida in stato di ebbrezza, si lasciò scappare frasi odiose contro gli ebrei. Infine in una telefonata con la sua ex seconda moglie, rubata e pubblicata online nel 2010, la violenza verbale, le minacce di morte e gli epiteti sui neri hanno posto sulla sua carriera quella che sembrava una pietra tombale. «Tutti commettiamo errori e dobbiamo porvi rimedio, infatti io mi sono dovuto scusare con molte persone quando sono tornato in Australia dopo tanti anni a girare questo film, e anzi mi scuso anche con lei per qualcosa che ho fatto in passato o potrò fare in futuro», scherza amaramente l’attore. Il problema è che Gibson per molti anni è stato schiavo dell’alcol. Perciò la sua presenza ai recenti Golden Globe, dove “La battaglia di Hacksaw Ridge” era candidato a tre premi, è suonata come una rivincita. Confermata dalle nomination agli Oscar: sei, comprese le più importanti, cioè miglior regista, miglior attore protagonista e miglior film.
E in effetti “La battaglia di Hacksaw Ridge” è un’opera davvero riuscita accolta da recensioni favorevoli, in cui Gibson dimostra di non avere perso quello smalto d’autore che nel 1996 gli ha fatto conquistare due Oscar per “Braveheart”, anche come miglior regista. La prima parte racconta la decisione di Desmond di arruolarsi e la sua lotta per affermare il diritto all’obiezione di coscienza, rinunciando a mollare nonostante il rischio della corte marziale, le pressioni della fidanzata (Teresa Palmer) e i difficili rapporti col padre ex militare (Hugo Weaving). La seconda invece è incentrata sull’episodio del titolo, avvenuto su una scarpata dell’isola di Okinawa presidiata dai giapponesi. Una carneficina durante la quale Doss portò in salvo 75 commilitoni rimasti agonizzanti a terra, calandoli uno ad uno lungo il dirupo. Molti di questi lo avevano ingiuriato e gli avevano dato del codardo perché non voleva ammazzare il nemico, ma lui non se ne curò. «Desmond compì un’impresa sovrumana e penso che in parte sia dovuto alla sua fortissima fede, perché per fare qualcosa del genere deve essere una forza superiore a spingerti», spiega Gibson.
«Nessuno capì come, pesando solo 68 chili, riuscì a calare tutti quei soldati, molti dei quali assai più pesanti di lui, in meno di 10 ore». Il carattere soprannaturale dell’impresa, che gli fruttò la “medal of honor”, la più alta onorificenza militare mai assegnata a un obiettore, è sottolineato in una particolare inquadratura in cui il corpo sfinito di Doss con in mano la Bibbia viene elevato quasi come fosse il Cristo redentore. «Il riferimento è voluto, perché Gesù era il suo eroe», sostiene Gibson, «e lui cercava di adottarne gli insegnamenti. Penso che Desmond utilizzasse il suo credo e le proprie convinzioni nel mezzo della guerra, che è l’inferno in Terra, seguendo ciò che tutte le religioni hanno come messaggio fondante: ama il prossimo. E penso sia un bel messaggio da lanciare proprio in questo momento storico, quando c’è gente che si suicida e ammazza gli altri in nome della religione. Un insegnamento che vale anche per i politici, non solo in America, che invece utilizzano la paura nei confronti dell’altro per spacciarsi come salvatori. Ma la paura, è bene ricordarlo, non viene da Dio».
Parla senza fermarsi Mel Gibson, torturandosi la barba e mescolando nei suoi discorsi fede, politica e cinema. Lui che per molti ha incarnato il simbolo del macho insensibile e reazionario, ma che in realtà nella propria attività da regista ha sempre dimostrato di volersi dedicare agli ultimi, gli afflitti, i disadattati: dall’insegnante sfigurato di “L’uomo senza volto” al ribelle scozzese William Wallace di “Braveheart”, fino al giovane maya in bilico tra la minaccia delle tribù nemiche e gli incombenti conquistadores di “Apocalypto”. «Ho sempre scelto personaggi straordinari, perché è ciò che i film dovrebbero raccontare: vicende di persone che escono dagli schemi e hanno esperienze diverse dalla gente comune. La letteratura parla di questo: il ciclo arturiano, i miti. Quelli come Doss sono i veri eroi, cui bisogna ispirarsi, non gli sciocchi personaggi in calzamaglia che ci propina Hollywood». Il regista ammette di essersi imbattuto per caso nella storia di Doss: «Quando me l’hanno proposta mi ha affascinato. E ho accettato anche se per girare il film avrei avuto poco tempo e denaro: 59 giorni e 40 milioni di dollari, che sono una buona cifra, ma solo per il cinema indipendente».
Eppure prima che il progetto arrivasse a Gibson, Hollywood aveva tentato per decenni di portare al cinema questa storia: «Gli studios avevano mandato a provare a convincere Doss persino Audie Murphy, uno degli eroi più decorati della Seconda guerra che poi divenne una star, ma lui era inorridito dall’idea che facessero un film su di lui, perché non si sentiva un eroe. Finché diede i diritti della propria storia alla sua parrocchia e negli ultimi anni di vita capì che raccontarla avrebbe potuto ispirare molte persone». Una volta partito il progetto, la sfida è stata soprattutto far bastare i soldi per le grandiose scene di battaglia, che visivamente non risparmiano nulla della brutalità del conflitto armato. «Okinawa è stato un bagno di sangue e io volevo rappresentare la guerra in modo realistico», spiega Gibson. «E siccome la battaglia occupa tutta la seconda metà del film, per reggere un racconto così lungo senza annoiare gli spettatori, bisognava orchestrare le scene come in un evento sportivo».
La frase evidenzia il rischio di ricevere nuove accuse di insistere gratuitamente su scene violente, come accadde ai tempi di “La passione di Cristo”, ma su questo il regista è piuttosto deciso: «Credo che per capire l’orrore della guerra e ciò che fa alle persone, trasformandole in animali, sia necessario essere espliciti, in modo da poter apprezzare anche quale sforzo è necessario per elevarsi al di sopra di tutto ciò. Può sembrare cinico dirlo, ma se non sei capace di intrattenere il pubblico l’impatto finisce per essere inferiore».
È indubitabile l’effetto che la pellicola avrà sulla carriera dell’attore, già completamente riabilitato agli occhi di Hollywood, a maggior ragione perché per la parte da protagonista ha scelto Garfield, attore che più volte ha affermato di essere orgoglioso delle proprie radici ebraiche. «Andrew è un attore sublime, perfetto per la parte non solo perché è mingherlino, proprio come era Doss, ma anche perché, come mi sono reso conto guardando “The Social Network”, è capace di comunicare con la mimica facciale anche senza parlare, dote rarissima tra i colleghi. E regge letteralmente tutto il film sulle sue spalle», racconta Gibson. Che conclude il nostro incontro cercando di esprimere il senso più profondo del film, che vuole essere al contempo un omaggio e un segno di speranza: «Il mondo non è in buone condizioni, né lo è stato prima di oggi, né lo sarà in futuro. Le guerre ci accompagneranno sempre e difficilmente impareremo dagli errori del passato. Eppure la storia di Desmond dimostra che ogni tanto si può non arrendersi a tutto ciò e reagire. Rifiutare di impugnare un’arma è forse un valore ancora più importante in un’epoca in cui si parla di guerre giuste. Odio le guerre, ma penso si debba onorare chi è costretto a combatterle: i reduci hanno bisogno di amore e comprensione, mentre troppo spesso sono lasciati soli. Così molti tornano a casa e si uccidono. Questo film l’ho fatto anche per loro».