Il filosofo Paolo Virno, teorico di formazione marxista e operaista, riflette in questo colloquio sull'uso del termine 'populismo' e spiega perché è tornato prepotentemente alla ribalta

Un comizio di Marie Le Pen durante la campagna per le presidenziali francesi
Se non è detto che nessuno sia profeta in patria, accade però che qualcuno sia sproporzionatamente più noto all’estero che nel proprio Paese, come accade da anni ?al filosofo Paolo Virno. Teorico di formazione marxista e operaista, Virno è infatti uno degli studiosi europei più letti ?e apprezzati nelle università americane, argentine, canadesi e anche giapponesi. Docente ?di Filosofia del linguaggio all’università di Roma Tre, ?è autore di saggi tradotti in molte lingue, tra i quali vanno ricordati almeno Grammatica della moltitudine (Derive ?e approdi, 2002), dove ha rilanciato per primo il concetto di moltitudine in opposizione a quello di popolo, e il più recente “L’idea di mondo. Intelletto pubblico e uso della vita”, uscito nel 2015 per Quodlibet.

Professor Virno, che senso ha tornare a parlare di comunismo in una scena pubblica dominata dal populismo?
«Populismo è una delle formule verbali più cariche di impostura che io abbia mai incontrato. Un vero imbroglio concettuale».

Eppure la usano tutti.
«La usano perché è un camuffamento linguistico che serve a nascondere la verità. Nel pensiero politico moderno, l’unico populismo che si conosca è quello del movimento rivoluzionario antizarista della seconda metà dell’Ottocento. Furono populisti molti dei grandi intellettuali dell’epoca, compreso Dostoevskij che venne tenuto in carcere per quattro anni e, più tardi, il fratello maggiore di Lenin che fu processato e giustiziato. Poi di populismo non si è parlato per cent’anni».
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Come mai allora il termine è tornato con tanta potenza?
«Perché la sua funzione è quella di tenere insieme le tensioni ?di destra e le proteste anti liberiste di sinistra, mettendo sullo stesso piano persone come Bernie Sanders, lotte come quella francese contro ?la legge sul lavoro o i tanti gruppi che in Europa criticano radicalmente il capitalismo, ?e movimenti dichiaratamente fascisti, tipo quelli che fanno capo a Kaczynski, a Farage, ?a Le Pen e oggi a Trump».

Anche fascismo è una parola forte.
«Non la uso come maledizione, ma come descrizione. Se ?vuole, possiamo chiamarlo ?post-fascismo».

Che differenza c’è con quello del Novecento?
«Come tutti i fascismi, anche questo si radica, come un doppio agghiacciante, nelle stesse situazioni che potrebbero contenere spinte ?di emancipazione e libertà. Però non è statalista e non esalta il lavoro».

Che cosa fa?
«Mette radici nella crisi ?della sovranità dello Stato, nell’incerto confine tra lavoro ?e non lavoro e nel gusto ormai irrinunciabile delle differenze, ?e diventa la caricatura maligna di ciò che uomini e donne potrebbero fare nell’epoca ?della comunicazione e del sapere come bene comune. ?È la trasformazione in incubo ?di ciò che Marx chiamava ?il “sogno di una cosa”».