Nei videogame c’è genio, tecnologia, condivisione. ?Per questo meritano di essere salvati dall’oblìo. Dal MoMa a Vigamus ad archive.org, ecco dove trovare i videogiochi che hanno segnato la storia e che ora rischiano di essere dimenticati

La storia dei videogiochi sta scomparendo. Ed è una storia culturale, a rischiare l’oblio. Il gaming, infatti, non è soltanto un mercato che nel 2016 ha raggiunto per la prima volta i 91 miliardi di dollari di fatturato.
Al prodotto di consumo di massa si è associata, e da decenni, una vera e propria forma d’arte da tutelare. Prima di tutto perché la rapidità del ricambio tecnologico rende presto obsoleti i supporti materiali su cui averne esperienza. E se è vero che una cartuccia per un sistema Nintendo o un gioco da bar anni 80 si può “emulare”, cioè replicare, oggi perfino su un comune browser in rete, più difficile è ricrearne il feeling, le sensazioni, le tante imprecisioni nella leva direzionale o nei pulsanti che li rendevano sfidanti, e ne racchiudevano il fascino.

Ancora più effimere sono le storie degli artisti, programmatori, game designer, sceneggiatori e musicisti che hanno ideato e sviluppato quei giochi, così come il loro codice sorgente - che peraltro è anche, in molti casi, un segreto industriale da proteggere, prima che diffondere - e soprattutto il genio e le motivazioni che racchiudono.
Intervista
John Romero: "Non solo grafica, il gaming è suono e design"
11/4/2017


«Preservare la storia del gaming è importante», ammonisce uno dei maestri del settore, Sid Meier, parlando con L’Espresso. Con la sua popolare saga “Civilization”, in cui chiunque può decidere il destino dello sviluppo di una civiltà, dalla barbarie alla conquista nello spazio, Meier ha sedotto centinaia di milioni di giocatori in tutto il mondo fin dal 1991, quando bastavano poche centinaia di kilobyte per comporre un sogno su schermo. «I giochi sono un prodotto del nostro tempo», aggiunge, «ed è affascinante capire cosa siamo stati in grado di fare con le limitazioni degli esordi».

Una questione tecnica, ma umana: perché «un videogioco richiede interazione con il mezzo, altrimenti non accade nulla». In quella interattività, concordano gli esperti, risiede l’unicum culturale del gaming - e insieme, il suo lato più difficile da salvare. È un paradosso, nell’era del digitale che tutto ricorda. Ma va affrontato, perché non si tratta di serbare memoria di semplici giochi di ragazzi.

Il gaming coinvolge infatti negli Stati Uniti nel 44% dei casi, secondo i dati di Statista, utenti di età superiore ai 35 anni; in uno su quattro, addirittura oltre i 50. Mentre l’opinione pubblica si interroga troppo spesso e a sproposito dei loro effetti - mai dimostrati dalla scienza - sulla violenza sociale, i videogiochi hanno invece fatto ingresso stabilmente nei musei di tutto il mondo, attirando milioni di visitatori.

«I migliori sono una grande espressione di arte e cultura in democrazia», diceva nel dicembre 2013 la direttrice dello Smithsonian American Art Museum, Elizabeth Broun difendendo “The Art of Videogames”. Una mostra riproposta in undici località negli Stati Uniti e che ha raccontato quattro decenni di sviluppo artistico e tecnologico, dall’Atari VCS 2600 alla PlayStation 3, attraverso alcuni dei giochi di maggiore successo, da Pac-Man a Super Mario, passando per Monkey Island e Myst.

La risposta, dice il curatore Chris Melissinos, è stata straordinariamente positiva ovunque, mostrando - con le infinite storie personali udite dai visitatori - il profondo legame affettivo che salda il gioco all’utente. In un modo inedito, secondo Melissinos: «I videogiochi sono il risultato della collisione dell’arte con la scienza», e rappresentano una forma espressiva in grado di «combinare arti tradizionali come la scultura, il dipinto, la narrazione e l’orchestrazione» come nessun’altra. Melissinos ne è convinto: «Possono dare voce a chi non ne ha, concedere una tregua dal mondo agli esausti, portare gioia in una famiglia e connettere individui in tutto il globo dando loro qualcosa da condividere. Sono certo», conclude ambizioso, «che i videogiochi dimostreranno di essere una delle forme artistiche più significative a disposizione dell’umano».

Non stupisce dunque che perfino il prestigioso MoMA di New York ne abbia acquisito decine per valorizzare «l’esperienza estetica» che restituiscono e il loro valore in termini di design. A Rochester, poi, c’è il National Museum of Play, capace di contenere oltre 60 mila oggetti legati alla storia del gaming, ma anche di proporre e coordinare studi accademici su come i videogiochi impattino «sul nostro modo di imparare e relazionarci l’un l’altro, anche attraversando confini culturali», oltre che geografici. L’Italia non è da meno. A Roma, per esempio, c’è il Vigamus, un museo videoludico che «nei suoi primi 50 mesi di vita ha totalizzato circa 142 mila visitatori», spiega il direttore Marco Accordi Rickards. Dal suo sito è perfino possibile compierne un tour virtuale, così da avere un assaggio di quella che secondo Accordi è parte integrante della «eredità storica e artistica» del nostro paese. «Del resto», dice, «i dati di Aesvi, l’associazione di categoria dell’industria italiana dei videogiochi, parlano chiaro: oltre metà degli italiani, in un modo o nell’altro, ne sono fruitori».

Gli artisti italiani del gaming, in altre parole, non sono meno artisti degli altri, e «dobbiamo valorizzarne il lavoro e la produzione». Un problema percepito chiaramente a livello internazionale da una comunità sempre più numerosa di storici, teorici e appassionati. L’esempio più recente è la nascita della Videogame History Foundation. «La sfida», ragiona l’ideatore Frank Cifaldi, «è non tanto conservare le copie fisiche dei giochi, di cui si occupano musei e archivi appositi, quanto digitalizzare la nostra storia». Si tratta insomma di creare librerie online sui giochi per darvi libero accesso a chiunque lo desideri, sempre, ma anche e soprattutto di «raccogliere la storia orale di chi stava insieme facendo e testimoniando quella storia».

Cifaldi è ben conscio che si tratta di un’opera titanica, a cui una sola organizzazione non può fare fronte. E certo, dice, «perderne una parte è inevitabile, ed è già successo migliaia di volte». L’ambizione però non è trovare una soluzione universale al problema, quanto «attivare» l’intelligenza collettiva in rete. Molti programmatori, per esempio, contribuiscono al catalogo di vecchie pietre miliari reperibile su archive.org.
Un sito che, come spiega il responsabile Jason Scott conta ogni giorno tre milioni di visite. «Confidiamo», racconta, «di ispirarne la ricerca nelle mansarde, nelle cantine, nei magazzini».

Il vero problema, dice Scott, è che «solo di recente si è riconosciuto che la storia dei videogiochi è a tutti gli effetti una storia culturale, con enorme valore e importanza per la comprensione degli ultimi decenni». E la critica ancora fatica ad adeguarsi.

Il filosofo e docente di Interactive Computing al Georgia Institute of Technology, Ian Bogost, è forse l’intellettuale che più di ogni altro ha compreso la portata di quanto sta avvenendo. Non basterà, sostiene, far passare del tempo per leggere di videogiochi allo stesso modo in cui si legge di cinema, televisione o letteratura.
Tra le specificità del gaming, infatti, c’è anche che non si tratta unicamente di una forma d’arte: è piuttosto un oggetto ibrido, che si muove tra l’estetica e i discorsi funzionali che occupano le pagine di recensioni di elettrodomestici. E «nessuno», scrive nell’introduzione al volume “How to talk about videogames”, «ha chiesto critici di tostapane».

C’è insomma un aspetto ludico, strumentale, che non sempre consente alte riflessioni sul significato etico e sociologico di un gioco - basta una partita ad Angry Birds per accorgersene. Tradotto: ogni critica seria del gaming ha un aspetto parodistico. Eppure, provoca Bogost, «anche se i giochi non fossero che quello, bisogna ricordare che preserviamo anche le arti decorative - i tostapane, appunto, ma anche le sedie, le penne - e in modo più efficace rispetto ai giochi stessi». Il punto insomma non è fare della categoria l’ennesima appendice istituzionalizzata delle discipline artistiche, con una operazione che, ricorda Accordi, potrebbe finire per demolirne la creatività, irregimentarla. Si tratta piuttosto di sollecitare il mondo del gaming a imitare gli storici, gli archivisti. E adottarne i metodi.

Tag
LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Il rebus della Chiesa - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso