Con Wolfenstein 3D e Doom, John Romero ha introdotto la terza dimensione alle masse a caccia di incubi videoludici. Missione compiuta, a giudicare dalle decine di milioni di copie vendute dal 1992 a oggi, che ne hanno fatto uno dei più rispettati game designer al mondo.
Romero, la storia del gaming va salvata?
«Sì, assolutamente. Ma dovremmo preservarla tutta. Il problema è che c’è molto più da salvare, quando si parla di videogiochi, dei giochi stessi. Quella è la parte facile: ci sono diversi emulatori che consentono di farlo, da molto tempo. La storia dei videogiochi che non è affatto ben documentata sono invece il codice sorgente e le interviste con chi ha creato quei giochi, e come lo hanno fatto, con quali particolari e innovative tecniche. È un mare di informazioni: ?il gioco in sé è solo il prodotto finale, ?ma ciò che conta soprattutto per capire perché un gioco fosse un capolavoro ?è come è stato realizzato, come ?è accaduto».
Cosa manca?
«La quantità di cose mancanti è stupefacente. Ho condotto io stesso diverse interviste con sviluppatori dei primi anni Ottanta, lasciando accesa la videocamera e facendoli parlare: che processi erano coinvolti, quali computer, come hanno imparato a scrivere codice, da dove avevano pescato le loro idee, quali tecniche hanno usato. E l’ho potuto fare perché io stesso sapevo farlo, e quindi potevo andare nello specifico: come avevano imparato a risolvere precisi problemi di programmazione, magari perché lo aveva capito un altro programmatore…».
Fondazioni e musei non sono abbastanza?
«Serve più di una mostra: in quella del MoMA per esempio Tetris sembrava proprio quello che negli anni Ottanta girava sui computer dell’università russa su cui l’ha visualizzato la prima volta Alexey Pajitnov, ed è fantastico. Ma dove sono le sue annotazioni sul design e la programmazione del gioco? Dov’è la storia orale di quel gioco? Come si è evoluta l’idea? Dove sono tutte quelle informazioni così importanti?».
È anche per questo, per la mancanza del contesto culturale in cui è sviluppato, che è così difficile concepire un videogioco come una forma d’arte e cultura?
«Sì, è possibile. E poi è presto, ci vorranno forse 20-30 anni di immersione in quella cultura, prima che tutti abbiano a che fare con dei giochi su base quotidiana. Fino ad allora ci saranno sempre resistenze. Fin quando i critici non avranno parlato con chi crea videogiochi, questi non saranno considerati una forma d’arte come le altre. E non è solo un’arte grafica: è programmazione, suono, design».
E sociologia. Come il documentario ?“How videogames changed the world”, ?di Charlie Brooker, in cui c’era anche lei. Quello era un tentativo di comprendere l’impatto culturale e sociale del gaming. Forse ne servirebbero di più.
«Ci sono tonnellate di giochi “indie” che ?lo fanno. E sono molto diversi da quelli mainstream. È come ogni forma d’arte».
Di norma a questi fenomeni si associano sottoculture molto varie.
«Assolutamente. Quanti si sono innamorati e sposati davanti a un dipinto? Accade continuamente anche nei videogiochi».
Anche in uno sparatutto a base di mostri come Doom?
«Certo! Conosco diverse persone ?che lo hanno fatto. Non importa che ?tipo di gioco: basta sia multiplayer, ?in rete, e le persone creeranno delle connessioni tra loro».
Che impatto ritiene i suoi giochi abbiano avuto sulla cultura popolare?
«L’impatto principale è stato introdurre ?un mondo tridimensionale visto in prima persona, e farlo in un gioco d’azione. ?È stato un modo di concepirli che ha poi dominato il settore, per il semplice motivo che i giocatori se ne sono innamorati. ?Il che ha fatto cambiare direzione ?a molti sviluppatori, e ne ha avvicinati ?molti altri al genere».
E ha dato il via ai giochi “open world”, ?ai mondi completamente esplorabili ?a cui siamo abituati ora.
«Sì, anche se gli open world sono ?di norma in terza persona. Noi invece usavamo la prima, per un motivo molto semplice: la terza avrebbe rallentato troppo il gioco. Troppi pixel da calcolare ?per allora».