Spende 4 milioni di dollari per un film e ne guadagna 150. Mentre i blockbuster collezionano flop. L’Espresso ha incontrato la star del cinema: «Ci piacerebbe coinvolgere professionisti italiani, come i Manetti Bros. Oppure Paolo Sorrentino, se ?volesse cimentarsi con un film a basso budget»

Il lamento abituale di molti cineasti europei è che i loro colleghi d’oltreoceano possono permettersi budget astronomici e battage pubblicitari ricchissimi che garantirebbero il successo a qualunque film, indipendentemente dalla sua qualità. Ma è davvero così? Molti di questi mitizzati blockbuster, invece, sono stati flop spaventosi: è sintomatico ad esempio il caso del nuovo “Ben Hur” di Timur Bekmambetov che, costato 100 milioni di dollari, ha incassato in tutto il mondo solo 94 milioni. Una tragedia superata solo dal catastrofico “John Carter” di Andrew Stanton del 2012: per farlo hanno speso l’astronomica cifra di 250 milioni di dollari, riprendendone appena 284 milioni, in un disastroso rapporto costi-benefici.

In realtà oggi in America c’è solo un produttore che si può fregiare del titolo di Re Mida: Jason Blum. Il suo mantra è «i soldi corrodono la creatività» e la Blumhouse Productions, da lui fondata nel 2000, inanella un successo dopo l’altro con film il cui costo medio non supera i cinque milioni di dollari (praticamente nulla per gli standard statunitensi) e i cui incassi medi si aggirano intorno ai 90 milioni. Il più recente exploit della Blumhouse è “Scappa - Get Out”, opera prima di Jordan Peele. Il film è costato solo 4 milioni e mezzo di dollari e, tra il 24 febbraio e il primo aprile, ha guadagnato più di 167 milioni di dollari. Poco prima “Split” (uscito il 10 gennaio) di M. Night Shyamalan, budget 9 milioni di dollari, aveva rilanciato le fortune del regista del “Sesto Senso” incamerando finora 270 milioni in tutto il mondo. Una scommessa duplice quest’ultima, visto che il regista era approdato alla corte di Blum nel 2015 con “The Visit” (5 milioni di budget, più di 98 milioni di guadagno), dopo aver firmato diversi kolossal deludenti da “Lady in the Water” fino ad “After Earth”, incapaci di ottenere ricavi proporzionati alla spesa.

«A Hollywood non capiscono che le carriere possono avere alti e bassi. Quando un regista firma due film che non hanno successo per loro è “bruciato”», dice al telefono Blum da Los Angeles, raggiunto durante i festeggiamenti per l’exploit di “Get Out”, «io invece sono convinto che dentro ogni regista ci sia sempre un grande film che chiede di essere girato. L’importante è farlo senza creare disastri economici. Il segreto è spendere poco e guadagnare molto: investendo un budget limitato in ogni film, noi possiamo mantenere la massima libertà creativa degli autori, perché anche se questo andasse male la perdita sarebbe contenuta», spiega Blum. Detta così sembra una cosa banale, ma i numeri dimostrano che la formula funziona: la svolta nella carriera del produttore risale al 2007, con l’affermazione internazionale di “Paranormal Activity” che, a fronte di un ridicolo budget di 15mila dollari, guadagnò più di 193 milioni.

Dopo quell’horror coprodotto, scritto, diretto e montato dall’esordiente Oren Peli, sono arrivati, tra gli altri, i suoi cinque sequel che, costati globalmente 28 milioni di dollari, ne hanno fruttati 887: “Insidious” (budget un milione e mezzo, 97 milioni ricavati), seguito da “Insidious 2” (5 milioni il budget, 162 gli incassi) e “Insidious 3” (budget 10 milioni, 113 incamerati); “La notte del giudizio” (budget 3 milioni, 99 incassati), con i sequel “Anarchia - La Notte del Giudizio” (9 milioni di budget, 111 d’incassi) e “La Notte del Giudizio - Election Year” (budget 10 milioni, 118 guadagnati). Il filo conduttore della casa di produzione di Blum è l’horror: «Anche “Whiplash”, film da noi prodotto, con cui ha esordito Damien Chazelle prima di girare “La La Land” e per cui ho ricevuto una nomination all’Oscar, altro non è che la nostra versione dell’horror per un festival intellettuale come il Sundance», ironizza il produttore.

Nelle pellicole della Blumhouse emerge una ben precisa presa di posizione politica e sociale: la critica al razzismo in “Get Out” rievoca quella di George Romero nel mitico “La notte dei morti viventi”; la denuncia della follia americana per le armi in “The Purge - La Notte del Giudizio” e nei suoi due sequel, l’ultimo dei quali uscito in America il primo luglio 2016, nel pieno della campagna elettorale che ha portato all’elezione di Donald Trump.

L’idea alla base della serie “The Purge” è quella di un’America distopica dove il crimine è stato spazzato via dai nuovi “Padri fondatori” della nazione attraverso un perverso escamotage: una notte all’anno, la notte dello “sfogo” (“purge”, appunto), ogni crimine è permesso. In dodici terribili ore l’alternativa è barricarsi in casa, sperando che le difese reggano, o combattere fino alla morte contro chi vuole perseguire vendette personali, o anche solo esprimere liberamente il proprio sadismo represso durante l’anno.

«Per me questi film sono un ammonimento - dice Blum - la cosa che più mi spaventa, infatti, è che raccontano un’America possibile. Ogni volta che negli Stati Uniti c’è un fatto di sangue la reazione è quella di comprare ancora più armi, con l’illusione di difendersi. Nei nostri horror proviamo a far riflettere su quali possano essere le conseguenze di una simile mentalità distorta, denunciandola chiaramente come una follia. Sfortunatamente l’elezione di Trump ci potrebbe portare più vicini alla realtà di “The Purge”. Di certo il comportamento del nuovo presidente degli Stati Uniti avrà una pesante influenza su quanto racconteremo nel prossimo capitolo della serie».

Ma come è possibile, in un’industria cinematografica come quella statunitense, contenere così drasticamente i costi? Anche qui Blum segue una via apparentemente facile: ridurre i tempi delle riprese e tagliare i compensi a registi e attori, offrendo loro una percentuale sugli incassi. Secondo la leggenda Ethan Hawke, vecchio compagno di college di Blum, avrebbe accettato di recitare nel primo “La Notte del Giudizio” (girato in diciannove giorni) per un compenso simbolico di 15 centesimi e dormendo sul divano di casa Blum. «Ho esagerato quando ho raccontato questa storia», ride Blum: «In realtà Ethan ha recitato per 15mila dollari, una cifra comunque irrisoria per un attore del suo livello, ma compensata dalla percentuale sugli incassi. Lui l’anno precedente si era divertito a girare “Sinister” (ndr, costato tre milioni, ne ha incassati 78), prima d’allora Ethan non aveva mai accettato di interpretare un horror perché temeva potesse essere un’esperienza troppo spaventosa per lui. Quando si è reso conto che il “genere” è un mezzo che fa emergere altre tematiche, la cosa lo ha stimolato». In effetti, in “Sinister” Hawke è un uomo che privilegia la carriera sulla famiglia, “Purge” invece affronta il rapporto malsano degli americani con le armi.

Se c’è un modello nel lavoro produttivo di Blum, va ricercato nel cinema horror politico degli anni Settanta e Ottanta di cui, dice il produttore, «il più grande regista di tutti è John Carpenter». Non è un caso infatti che, tra i tanti progetti del cantiere Blumhouse, ci sia il remake di “Halloween”, classico di Carpenter del 1978, che Blum ha affidato a David Gordon Green e che vedrà la luce nell’ottobre 2018. «In realtà il mio sogno è produrre un film diretto da John Carpenter stesso: ne parliamo da molto tempo, ma lui è scettico all’idea di dover girare il tutto in soli 22 giorni», confessa il produttore. Sì, perché le regole della casa di produzione, al proposito, sono ferree: «La maggior parte dei film li giriamo in diciannove giorni, qualche volta ci siamo spinti fino a ventisette, ma la misura corretta è tra i venti e i venticinque giorni di riprese. Il mio numero “magico” è ventidue giorni: con più tempo si spreca solo denaro», aggiunge Blum.

Questa politica produttiva ha spinto alcuni critici a paragonare la Blumhouse alla Factory di Roger Corman, per la comune capacità di produrre film a basso costo: «Siamo amici, ammiro e rispetto moltissimo Roger. Tuttavia, a parte la similitudine del low-budget, il nostro Dna è piuttosto differente», puntualizza Blum, «Corman ha lanciato giovani registi esordienti, mentre noi, con la sola eccezione di Oren Peli, no. A Hollywood si affidano film “low-budget” a registi alla prima o seconda esperienza, ma un regista alle prime armi è la persona peggiore cui chiedere di dirigere questi film: non conosce i trucchi di set e non ha fiducia in sé stesso, così tende a filmare troppo, allungando i tempi di lavorazione. A noi servono professionisti. Ci piacerebbe coinvolgerne qualcuno anche dal vostro paese: i Manetti Bros. ad esempio, se ci portassero un progetto interessante in inglese. Ma anche Paolo Sorrentino: se volesse cimentarsi con un low-budget siamo pronti ad accoglierlo a braccia aperte!».