"Quanto vali? significa adesso "Quanto sei in grado di produrre". Accade nelle istituzioni universitarie in balia di agenzie di valutazione chiamate a misurare quanto siano produttivi docenti e dipartimenti. Così si riduce l'arbitrio dei baroni, ma si rischia di penalizzare non solo i fannulloni, ma i professori più dotati

Può sorprendere, in una società che sembra perdere ogni rapporto con i propri valori, l’espandersi inarrestabile dell’ideologia della valutazione. Ormai siamo tutti valutati. Non ascoltati, considerati, sostenuti nelle nostre fragilità pubbliche e private. Ma valutati sì. In termini economici di utilità, di performance, in cui occorre misurare il “capitale umano” che ciascuno, potenziale imprenditore di se stesso, può vantare. Del resto la trasmigrazione del concetto di valore dall’ambito etico a quello economico non poteva portare ad altro. “Quanto vali?” significa adesso “quanto sei in grado di produrre?”. Tutto ciò non solo a prescindere da considerazioni sociali, contestuali, personali. Ma anche in base a dati puramente quantitativi, misurabili e appunto valutabili in maniera numerica.

Se in campo economico tale indagine di mercato è comprensibile, trasferita ad altri settori rischia di determinare effetti controproducenti e vere e proprie storture. Per esempio valutare in questi termini la situazione di un malato in una struttura sanitaria pubblica può portare a conseguenze catastrofiche. Ma l’impatto – per usare un vocabolo amato dai valutatori – su altri ambiti può risultare del pari devastante. È quanto accade da tempo nelle Università, ormai in balia, per i loro finanziamenti, di agenzie di valutazione destinate a misurare il “valore” dei singoli docenti e dei Dipartimenti in cui essi operano.

Numero degli studenti, numero delle pubblicazioni dei docenti, numero delle citazioni dei loro lavori, numero dei brevetti, degli stage attivati, degli sbocchi professionali. Nulla sfugge alla griglia approntata dalle agenzie di valutazio ne allestite ovunque – prima l’Aeres in Francia poi l’Anvur in Italia. Ciò che esse si ripromettono è misurare in maniera oggettiva, perché numericamente definita, il valore quantitativo prodotto da singoli e da collettivi, finanziati in base a tale indice. Da quel momento i dossier, le schede, i formulari prodotti dalle strutture accademiche e dai docenti superano di gran lunga quello dei prodotti stessi della ricerca. Ciò che conta è che questi entrino nelle griglie prefissate, dando luogo a una cifra superiore, pari o inferiore a una serie di “mediane” preventivamente fissate. Chi le supera passa – nei ruoli accademici superiori, nelle abilitazioni scientifiche nazionali, nei Collegi dei Docenti dei Dottorati. Chi non ha gli stessi numeri – di articoli, citazioni, brevetti – resta fuori.

Ciò, si dice, non senza qualche ragione, ha finalmente abolito l’arbitrio dei vecchi baroni, gli accordi sottobanco, i privilegi che effettivamente caratterizzavano il sistema universitario precedente. Oggi tutto ciò è finito, dissolto dalla nuova neutralità oggettiva. Basta contare. I numeri non tradiscono. La giustizia accademica è infine instaurata. Restano, però, aperte alcune domande. Chi valuta i valutatori? Essi – si risponde – sono valutati con le medesime mediane adoperate per i candidati da valutare. Ogni valutatore, a sua volta, si avvale di numerosi sottovalutatori che egli stesso individua in base alle proprie valutazioni delle loro capacità valutative. Sembra uno scioglilingua. Ma le cose stanno davvero così. Un sistema volto all’oggettività del giudizio si basa su una serie di scelte soggettive discendenti di cui sfugge solo il primo anello, che riguarda il vertice dell’Agenzia, di nomina governativa. Del resto su tutto sorveglia il Miur, il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, a sua volta garantito dall’alta responsabilità del Ministro in carica, scelto dai partiti di governo in base a criteri del tutto esterni a quelli applicati a valutandi e valutatori e anzi, possibilmente, mai sottoposto ad esami di pubblico rilievo.

Non basta. La cornice dell’intero quadro si è evoluta nel tempo. Mentre fino a poco fa si poteva pensare che, per chi fa ricerca scientifica, almeno nell’ambito delle scienze umane, i “prodotti” più rilevanti fossero i libri – in gergo accademico, “le monografie” – a un certo momento si è stabilito che non è più così. Ciò che conta sono solo gli articoli – anche di due-tre pagine – pubblicati in riviste collocate preventivamente, in base a una apposita valutazione, nella cosiddetta fascia A. Soltanto chi le dirige o chi è suo buon conoscente, può pubblicare in esse articoli che, s’intende, verranno neutralmente valutati dai valutatori che gli stessi direttori hanno scelto. Ma non basta. Queste riviste, ai fini della valutazione, non sono uguali. Valgono solo quelle del settore disciplinare del valutando, cosicché, se questi ha interessi di tipo interdisciplinare – che so, di architettura se insegna storia dell’arte o di filosofia politica se insegna filosofia morale – va severamente punito con l’esclusione dall’ambito dei salvati e precipitato in quello dei sommersi.


L’esito, borgesiano, di questo sistema è che la Commedia di Dante non otterrebbe la valutazione positiva perché non attinente a un settore disciplinare specifico, visti i suoi riferimenti, appunto “interdisciplinari”, filosofici, cosmologici, politici, etc. Ancora, Francesco De Sanctis sarebbe bocciato in un’abilitazione in Storia della Letteratura Italiana, perché, insieme alla sua grande “Storia” non ha scritto sufficienti articoli; Einstein non passerebbe perché, rompendo paradigmi e convenzioni scientifiche del tempo, non avrebbe potuto organizzare lo scambio di citazioni necessarie con i colleghi. E così via.

Tutto ciò, naturalmente, questi effetti perversi, non sono ignorati da chi ha messo in piedi, magari anche in buona fede, il sistema. Ma sono considerati danni collaterali rispetto ai suoi aspetti positivi. Che in effetti ci sono, soprattutto per i peggiori: coloro che non pubblicano abbastanza vengono adesso giustamente esclusi. A pagare il prezzo sono tuttavia i migliori, cioè coloro il cui prestigio internazionale spinge a scrivere i propri libri, spesso tradotti in diverse lingue, senza preoccuparsi delle griglie, delle fasce, delle citazioni e così via.

Ve li immaginate, per restare nel campo della filosofia, Habermas e Derrida che cercano le riviste di fascia A per scrivere dodici articoletti? E coloro che fanno ricerca scientifica perché dovrebbero tentare di innovare il proprio campo, rischiando di non essere citati dai colleghi più tradizionali? Questo spiega perché sta nascendo un silenzioso movimento di protesta, sfiducia, stanchezza che porta diversi professori, soprattutto in area umanistica, a lasciare l’Università. Per dedicarsi finalmente alla ricerca. Non per non essere valutati, ma per non finire preda di un dispositivo inefficiente e contraddittorio. n