Ha lasciato pochi articoli, ?neanche un libro, ma tanti amici. ?E soprattutto una casa editrice: l’Adelphi. Un libro rilancia un intellettuale geniale al quale la letteratura deve molto
Nomade, disinibito, informale, dissipatore, inesperto, maldestro, veggente, ondivago, indeciso, enigmatico, geniale, innocente, attratto dall’insolito, dal bizzarro, dallo sconosciuto, dall’imprevedibile. L’uomo per cui sono stati formulati questi giudizi da amici, ammiratori, nemici e detrattori, si chiama Bobi Bazlen, uno che voleva essere sempre libero, senza alcun punto fermo: «Non un matrimonio, non un figlio, non un contratto di lavoro stabile, non una casa di proprietà», come ricorda Cristina Battocletti nel libro dedicato a lui, “Bobi Bazlen. Romanzo di una vita” (in libreria il 31 agosto per La Nave di Teseo), vera e propria narrazione delle sue vicende personali, delle amicizie, degli amori, della rete di relazioni che ha tessuto intorno a sé. Bazlen è stato un uomo geniale; a lui la cultura italiana deve moltissimo senza che abbia mai pubblicato, almeno da vivo, un solo libro o scritto per giornali e riviste, se non in modo irregolare e casuale, legato più alle persone che non alla cultura stessa.
Roberto Bazlen, detto Bobi, è stato un assoluto irregolare, un eccentrico, un solitario, seppur devoto alle amicizie: gli interessavano le persone non meno dei libri. Era nato a Trieste il 9 giugno 1902 da un padre originario di Stoccarda e una madre ebrea triestina dal doppio cognome: Levi Minzi. Di statura media, in carne ma non tozzo, orecchie grandi, carnagione scura, portava la riga a sinistra da dove partiva un’evidente stempiatura. Una cosa di cui tutti si ricordano sono gli occhi, che contenevano «un guizzo di umanità e di disincanto da cui ci sentiva necessariamente attratti». Le fotografie che gli ha scattato Margarete Frankl, detta Gerti, musa di Montale, lo mostrano come una sorta di dandy quasi fuori tempo massimo. Non a caso ha incarnato quella che Sergio Solmi definì come la figura dell’«eterno studente».
[[ge:rep-locali:espresso:285292325]]A detta di chi l’ha frequentato, due gesti hanno connotato la sua persona nel corso della sua esistenza: comprare sigarette e imbucare lettere. Di missive ne ha scritte tantissime e sono proprio queste lettere, oltre alle testimonianze di chi lo conobbe, a restituirci la figura di un uomo per cui era agevole capire al primo sguardo quali fossero «i grandi libri senza i quali l’umanità sarebbe stata un po’ più sola», come scrive Battocletti, o di stabilire la «primavoltità» di un’opera.
Bobi ha contribuito a dare una svolta all’editoria italiana dopo il Fascismo, all’uscita dall’autarchia, attraverso l’emersione di un intero continente di libri sconosciuti, ignoti e favolosi, operazione che culmina con la fondazione della casa editrice Adelphi il 9 giugno 1962, opera sua e di Luciano Foà, suo sodale, che per farlo abbandona il prestigioso posto di segretario generale all’Einaudi. Gran parte della vita questo triestino l’ha trascorsa sdraiato a letto, a leggere, in camere d’affitto o in alberghi, oppure ramingo per l’Italia o per l’Europa, sempre in movimento, perché non gli riusciva proprio di star fermo.
Dopo aver abbandonato a 32 anni Trieste, la sua culla e in una certa misura anche sua possibile tomba, ed essersi trasferito a Roma, non vi rimette più piede per decenni, salvo due rapidi ritorni: il primo per la morte della madre, da cui era fuggito e che lo psicoanalista consigliava di non incontrare; il secondo negli anni Cinquanta, per l’insopprimibile curiosità di rivedere la propria città. Lì era stato l’interlocutore di Umberto Saba e Italo Svevo, uomini ben più vecchi di lui, e anche il frequentatore di trattorie e dei caffè dove l’intellighènzia della città s’incontrava (tra i tanti: Guido Voghera, Giorgio Fano, Giani Stuparich, Arturo Nathan, Vittorio Bolaffio, Gillo Dorfles, Leonor Fini, Wanda Wulz), dove grazie a lui si cominciava a leggere Kafka.
Trieste ha voluto dire anche la scoperta della psicoanalisi, pratica cui si sottopone,probabilmente con Edoardo Weiss, allievo di Freud, prima di passare a Ernst Bernhard, fondatore della junghismo italiano, una volta a Roma.
Senza Bobi Bazlan non avremmo diverse poesie di Eugenio Montale, suo interlocutore per vari anni; non ci sarebbero i libri che hanno reso famose e illustri case editrici come Einaudi, Astrolabio, Adelphi; la scoperta di Svevo avrebbe tardato, o forse non ci sarebbe mai stata; oppure sarebbero diversi i libri di Quarantotti Gambini, suo sodale per decenni, confidente e punto di riferimento. Niente “I Ching, il libro dei mutamenti”, opere di Jung o “L’uomo senza qualità” di Musil, che suggerì all’Einaudi, dove fu accolto, seppure con qualche perplessità. L’eterno studente triestino lavorò brevemente all’Ufficio propaganda e pubblicità dell’Olivetti, prediletto da Adriano, che ne aveva fatto una sorta di consulente astrologico, passione che coinvolse Bobi nel corso di tutta la vita e che sembra guidare le sue scelte.
Il libro di Cristina Battocletti racconta il mondo di Bobi attingendo a lettere inedite inviate a Quarantotti Gambini e diversi epistolari, che restituiscono la sua personalità d’inquieto e appassionato amico: generoso, costante, impietoso, e a tratti persino cattivo.
Perché Trieste, questa «città del vuoto», come l’hanno definita Angelo Ara e Claudio Magris, ha esercitato attraverso Bobi, e non solo lui, una così grande influenza sulla cultura italiana dell’ultimo secolo? Città di frontiera, bifronte, dall’incerta e insieme solidissima identità, sospesa tra due mondi, Trieste è stata paradossalmente la città del futuro, pur essendo legata al proprio passato.
La forza della cultura di Trieste, di cui Bobi Bazlen è stato il messaggero mercuriale, risiede nella sua assoluta inattualità, qualità che le ha permesso di scavalcare nel corso degli ultimi settant’anni l’attualità delle mode e degli stili, e di essere assolutamente contemporanea nel senso indicato da Karl Mannheim: si vive con i propri coetanei un complesso di possibilità del proprio tempo, così che per ciascuno è in un altro tempo, ossia un’altra epoca di se stesso. Bobi Bazlen ha vissuto sempre in un altro tempo, così che contemporaneo continua a esserlo ancora oggi proprio per la sua personalità non conclusa, aperta, non definita da nessuna opera, e forse neppure da se stesso: un centro vuoto.
Battocletti ci racconta attraverso Bobi la città di Michelstaedter e di Carlo Stuparich, morti suicidi. Trieste, città in bilico sul ciglio di una continua apocalisse, alimenta la preferenza di Bazlen per libri che contengono atmosfere da incubo (Kafka e Kubin). Lui, che era di lingua tedesca, e si esprimeva per iscritto in un italiano a tratti incerto, incarna perfettamente la vertigine che è contenuta nella modernità, da cui non ci siamo ancora emancipati nonostante due guerre mondiali e innumerevoli conflitti, tra cui quello scoppiato, non troppo tempo fa, proprio ai confini della sua terra.
L’autrice ha dedicato ampio spazio alle relazioni sentimentali di Bobi. Fidanzato con Duska Slavik, la lascia e poi la spinge verso il marito di Gerti, la donna ritratta da Montale nelle sue poesie. Quindi fugge a Milano con Linuccia Saba, figlia prediletta del poeta e libraio triestino, ci resta un anno, e per lei consuma parte della sua cospicua eredità ricevuta dal padre e dallo zio. Linuccia si legherà poi a Carlo Levi. Rompe per questo con Umberto Saba di cui scrive: «Un egoista, che aveva tutti i difetti del poeta senza averne i pregi». Una delle due, suggerisce l’autrice, avrebbe probabilmente abortito.
Nella vita Di Bobi ci saranno altre donne. Gerti, personaggio straordinario, figlia di un banchiere austriaco, viaggiatrice indefessa, fotografa dilettante, musa di Montale. Del poeta genovese, di cui Bobi non smette di sostenere e correggere l’opera, Battocletti ricorda la rottura avvenuta a causa di Drusilla Tanzi. Sposata con il critico d’arte Matteo Marangoni, diventa la compagna di Montale. Drusilla tenta il suicidio due volte: Montale ha un rapporto parallelo con la critica letteraria Irma Brandeis e sta pensando di seguirla in America. Bobi consiglia all’amico di lasciare Drusilia, sorella della madre di Natalia Ginzburg. La frattura tra Bazlen e Montale diventa inevitabile; si ricomporrà solo a distanza di anni. S’interrompe anche il rapporto epistolare con Gerti - oltre settanta lettere - proprio l’anno in cui l’ex fidanzata di Bobi, Duska si mette con Carlo Tolazzi, marito di Gerti, da cui avrà due figli. Questa doppia rottura porta alla fine del gruppo di amici che fanno capo alla città giuliana. Anche in questa vita sentimentale sussultoria, giocata tutta nel cerchio del piccolo gruppo, Bazlen pare anticipare i tempi a venire, cura psicoanalitica annessa. Edoardo Weiss entra in scena qui, anche se non ci sono prove che sia stato il suo analista.
Il libro è il romanzo di una vita, non solo di quella di Bobi, ma di tutto il mondo che lo circonda, di cui egli è il filo che cuce e collega numerose figure. Una delle storie che innervano il volume di Cristina Battocletti, composto di libri letti, donne amate, relazioni epistolari, è quella della presunta omosessualità di Bazlen. Nel 1939 si è trasferito a Roma dove frequenta Elsa Morante, Ernst Bernhard, Amelia Rosselli, Bianca Garufi. Alberto Moravia, che l’ha in antipatia, lo ricorda come sempre in fuga per le strade: «Piccolo Socrate ambulante in un continuo andirivieni».
Nella capitale Bazlen porta avanti la sua analisi. Tiene un diario psicoanalitico, di cui restano vari disegni pubblicati nella prima edizione del suo romanzo postumo, “Il capitano di lungo corso”, uscito nel 1973 da Adelphi. Vi raffigura falli, uomini che orinano nelle bottiglie, imbuti infilati nell’ano, e altre fantasie ossessive. Le interpretazioni di questi disegni non accertano la sua omosessualità, così come molte testimonianze di giovani psicoanalisti, che gli furono amici, documentano il contrario, la sua irrefrenabile eterosessualità - gli piacciono le donne degli altri. Chi lo frequentò sottolinea la sua inclinazione ad essere, novello Socrate, circondato da giovani amici, tra cui spicca Roberto Calasso, coinvolto da Bazlen nell’Adelphi, di cui diventerà nel 1971 il direttore editoriale. Adelphi è la creazione più longeva di Bazlen: nasce con l’idea di diffondere libri unici alla ricerca di lettori affini.
A Roma Bobi ebbe relazioni importanti con altre donne: Silvana Rodogna, moglie di Vittorio Loriga, psicoanalista, e Bianca Garufi, amata da Pavese, di cui s’invaghì. Infine c’è il rapporto con Ljuba Blumenthal, ebrea romena, conosciuta nel 1929, e sposata con Julius Flesch. Bobi la salva alla fine degli anni Venti dal marito impazzito; viene ricoverato grazie all’intervento di Bazlen in ospedale psichiatrico a Brescia, poi morirà deportato ad Auschwitz. Nel 1951 Ljuba sposa un chimico inglese; tuttavia Bobi pensa di spostarsi a vivere Londra per starle accanto, sebbene gli manchino i mezzi economici per farlo. Morirà infatti a Milano nel 1965 in una camera d’albergo poco distante dalla sua Adelphi, dopo aver perso la sua preziosa stanza a Roma.
Ljuba diventerà uno dei personaggi del romanzo di Daniele Del Giudice, “Lo stadio di Wimbledon”, il più famoso tra i libri dedicati sin qui alla vita di Bazlen. Sergio Solmi, in margine a una polemica, suscitata dopo la morte di Bobi, scrive a un parente diSvevo: «Non ho mai capito bene quale fosse il suo scopo nella vita». Lo definisce «una specie di folletto, di enigmatico passante per la terra». L’essere senza scopo è stata una delle forme attraverso cui Bazlen si è espresso in un mondo, che procedeva a grandi passi verso l’imprescindibile utilità. Per questo appare come il nume tutelare di chi ha fatto dell’ “essere” e non del “fare” lo stigma della propria esistenza.
Bazlen sembra un personaggio letterario. Lui che non ha scritto nessun libro in vita, è diventato il protagonista di libri, ma sempre difficile da definire. La sua figura somiglia a quella di Bartleby, lo scrivano di Melville con il suo motto: «avrei preferenza di no». Cristina Battocletti con una scelta eccellente alla fine di questo magnifico libro esamina le diverse leggende che circolano su di lui; alcune le smentisce, altre le spiega, altre ancora le perfeziona. E ci fa comprendere la lezione più duratura di Bobi: l’esistenza come forma pura, sciolta da ogni utilità o fine. L’Oriente in Occidente, senza però rinunciare al tormento creativo che la nostra cultura porta con sé, perfettamente incarnato dalla vita di Bobi. La sua è un’eredità difficile da conservare in tempi come i nostri, ma necessaria come i libri che ci ha permesso di leggere con i suoi imprescindibili consigli editoriali.