Quando un nostro connazionale combina qualcosa di buono, non abbiamo il coraggio di supportarlo. anzi. Dargli contro diventa sport nazionale.  Ancora repliche alla provocazione sulla lingua dei romanzieri

I francesi sono sciovinisti. Gli statunitensi si sentono al centro del mondo, anche se quella centralità la stanno perdendo. Gli argentini, i cileni, i messicani, che il mito degli Stati Uniti non l’hanno mai avuto, hanno invece un debole per l’Europa, di cui si sentono tuttavia una filiazione irripetibile, irriproducibile da qualunque europeo. Spararsi addosso è lo sport preferito degli italiani. L’autodenigrazione è la nostra vera forma di patriottismo persino in settori, come quello della produzione culturale, dove un qualche peso ce l’abbiamo. I luoghi comuni sono sempre limitanti, e applicati ai caratteri nazionali sanno di barzelletta. Per elevarci potremmo chiamare in causa Umberto Saba quando diceva che Romolo e Remo, cioè la lotta fratricida, è il nostro mito fondativo. Prendiamo la letteratura. Come giustamente scrive Tiziano Scarpa nella puntata precedente di questa discussione, siamo pronti a stracciarci le vesti davanti all’ennesimo caso letterario strombazzato dal “New Yorker”. Se invece è un nostro connazionale a combinare qualcosa di buono, allora non abbiamo il coraggio di supportarlo, o lo facciamo a patto che il suo successo non rischi di farci ombra, e soprattutto purché non sia più giovane di noi.

Chi ad esempio pensa che l’affaire Elena Ferrante sia un mistero incapace di indagare il mistero ben più grande dei milioni di lettori che la amano (dall’anonima passeggera su un treno regionale a Jonathan Franzen), farebbe bene a domandarsi se non sia invece una cartina di tornasole per se stesso. Come si dice: il moralista fa la morale agli altri, l’uomo morale la fa per primo a sé. A me la tetralogia de “L’amica geniale” è piaciuta. Al di là del gusto personale (sacrosanto e perennemente discutibile), c’è un dato oggettivo a proposito di quel lungo romanzo che chi si occupa professionalmente di letteratura non può non cogliere. Chi non trovi ne “L’amica geniale” la capacità di indagare come pochi le contraddizioni dei rapporti d’amicizia che ho ravvisato io, non potrà negare che quel romanzo sia costruito con una sapienza narrativa rara, e una capacità di costruzione della trama che manca alla maggior parte degli scrittori che la snobbano.

Ne “Il nome della rosa” (romanzo che avvelenò il sangue a molti critici e scrittori i cui libri, a differenza della parabola di Guglielmo da Baskerville, non sono rimasti) accadeva qualcosa di simile pur nelle tante diversità. Se chi punta tutto sulla lingua avesse raggiunto, nella propria specialità, ciò che riesce a fare Elena Ferrante con la drammaturgia, sarebbe il nuovo Gadda, o il nuovo Busi. Gli renderemmo onore.

Paolo Di Paolo, per denigrarla, dice che è un’autrice da feuilleton. Mi viene da rispondere bonariamente: Paolo! Ma prova a scriverlo te, allora, “Il conte di Montecristo”! Prova a scriverlo te “I tre moschettieri”! Io non ne sarei capace. Dubito che Paolo Di Paolo ne sarebbe capace. Ma credo anche che non aspiri a scrivere un feuilleton. Abbiamo bisogno dei Malcolm Lowry. Ma abbiamo bisogno anche degli Alexandre Dumas.
La polemica
Paolo Di Paolo: «Perché ha successo la Ferrante? Boh»
12/2/2018


Quello di cui non abbiamo proprio bisogno è invece credere che il talento altrui, o peggio ancora il semplice successo altrui, tolga spazio a noi stessi. È una superstizione molto diffusa, durissima a morire. Volete un altro esempio? Tutti a dire - da decenni - che il cinema italiano è morto. Poi invece l’Italia è il paese che ha vinto al mondo più premi Oscar per il miglior film straniero ed è secondo solo agli Stati Uniti per numero di Palme d’Oro. E Luca Guadagnino, snobbato fino all’altro ieri, è diventato il nuovo eroe nazionale dopo l'Oscar. Più generosità, meno provincialismo.

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