
La cinquina fa registrare una buona notizia, in un premio che solo dieci volte nel corso della sua storia è stato attribuito a una donna - da ultimo a Melania Mazzucco nel 2003: svetta Helena Janeczek, in compagnia di Sandra Petrignani e Lia Levi. Tre donne più due uomini, Marco Balzano e Carlo D’Amicis. Autori di romanzi apparentemente diversi, ma in larga parte inclini a indagare la storia e la memoria. Il vincitore? Lo decreterà la giuria al Ninfeo di Villa Giulia, a Roma, il 5 luglio. Ora, mentre il quintetto forzosamente unito completa il suo pellegrinaggio per festival e città (di rientro da San Pietroburgo, ospiti dell’Istituto italiano di cultura, gran finale sul palco di Massenzio, a Roma, il 3 luglio), è il dietro le quinte a fare da protagonista. Tra alleanze da ridefinire (a chi andrà il voto degli esclusi? In Mondadori prevarranno logiche di gruppo o di casa editrice?), tra giurati di lungo corso che storcono il naso sull’allargamento dei votanti (ai 400 Amici della Domenica si sono aggiunti 200 intellettuali che, con i 20 voti collettivi delle Biblioteche di Roma e i 40 lettori forti selezionati dalle librerie, portano gli aventi diritto a 660). E critici che si interrogano sulla qualità letteraria in gioco: come Filippo La Porta, che provoca auspicando l’ex aequo, un premio a un’ideale antologia con le pagine migliori di ciascuno. Da qui parte il dibattito.

Elvira Seminara: «Prima che della qualità letteraria, vorrei ragionare sui temi dei libri, a partire da quello storico. Mi piace molto che questi libri dialoghino tra di loro: con esclusione de “Il gioco”, tutti e quattro affrontano gli anni tra i Venti e i Quaranta del Novecento: Lia Levi parlando di leggi razziali, Balzano di un episodio trascurato della nostra memoria con un campanile sommerso che ha una forza evocativa interessantissima. Janeczek racconta la storia di Gerda Tardo, morta durante la guerra civile spagnola, Natalia Ginzburg, della Petrignani, non ha bisogno di didascalie. Il fatto che questi libri siano stati scritti e premiati mi fa pensare che ci sia un percorso di riappropriazione di anni di fragilità a noi prossimi. C’è qualcosa che ci avvicina, che ci fa paura in questo contatto con la storia recente: la fragilità, la precarietà, la perdita di relazioni civili. Anche nei libri esclusi c’erano elementi simili: ne “Il sangue giusto” di Francesca Melandri, che racconta la relazione con lo straniero; in “Dalla mia terrazza si vede casa tua” di Elvis Malaj, storia di transizione tra Italia e Albania. A me sembra che proprio la transizione sia la categoria sfuggente, friabile, screpolata, che accomuna i libri. Transizione anche nel corpo, come nelle storie di amori impediti o di trasformazioni sessuali. Mi sembra rassicurante l’attenzione verso questi temi - leggi razziali, solitudine- gli stessi sollevati all’esame di maturità: storie che fanno male, fanno memoria. Mai come oggi essenziale».
Gian Arturo Ferrari: «Il giudizio sulla qualità letteraria lo lascerei ai posteri... più della metà dei vincitori del premio Nobel sono oggi dei perfetti sconosciuti, due terzi dei vincitori del Premio Strega non sono più pubblicati. Parlerei di gusto, che il pubblico nel suo insieme misteriosamente coagula intorno a certi libri. È inutile ricordare che i più grandi scrittori del Novecento non hanno vinto il Nobel, i più grandi romanzieri del Secondo Novecento non hanno vinto lo Strega. Quindi calma: stiamo parlando di un premio, di una grande festa, non di una messa cantata. Quest’anno tra i libri che ho letto molto sinceramente non mi sembra che ci sia il capolavoro destinato a varcare i secoli. Sono buoni libri, oggi la qualità media si è molto innalzata. Ho trovato bello il libro di Balzano, specie nella parte riguardante la guerra. Bello il libro della Janeczek, molto simile a lei. Mi è piaciuta molto la vita della Ginzburg di Sandra Petrignani. Riguardo alle vendite, che alla fine è ciò a cui tendono quasi tutti quelli che parlano di qualità, non credo che ci sarà nessuno tra gli autori di quest’anno che replichi l’incredibile successo dell’anno scorso di Cognetti, che ha venduto 300 mila copie, una cifra pazzesca. Lo Strega rimane ciò che è sempre stato, nonostante i tentativi di riforma: un premio amato dal pubblico, che ha fiducia nelle sue scelte. Un premio istituzionale che rappresenta la società italiana nelle sue luci e ombre. È come siamo noi. E funziona».
L’Espresso: «È sempre valida la “regola del quattro”: vincere lo Strega, cioè, fa moltiplicare per quattro quanto il libro ha venduto fino a quel momento?».
Ferrari: «Si moltiplica per molte più volte! Ma può anche non moltiplicarsi per niente: ci sono esempi, che non è elegante fare, di libri rimasti più o meno dove stavano anche dopo aver vinto il premio. Non è automatico. Se un libro piace al pubblico si capisce prima della vittoria, lo Strega fa da moltiplicatore. Il pubblico non si è quasi mai sbagliato. Sono un grande difensore dello Strega. In un Paese “scassato” come il nostro un po’ di istituzioni fanno bene. Polemiche, trame e retroscena inclusi».
L’Espresso: «Non c’è dubbio: lo Strega in Italia è una certezza. È il Palio della narrativa: tutto è già scritto dall’inizio, tutto può succedere fino all’ultimo».
Ferrari: «Coincide con la storia repubblicana. È uno spaccato dell’Italia migliore. Merito di quel gruppo di intellettuali sbeffeggiato pure al cinema: ricordo Gassman che interpretava Maria Bellonci ne “I Mostri”... Gli sberleffi allo Strega arrivano da lontano. Ma mi è molto caro».
Alberto Asor Rosa:«Non mi sento di dare un giudizio sulla qualità degli ultimi concorrenti, anche perché siamo ancora dei votanti. Io ne ho votati due. Credo che lo Strega rappresenti un termometro attendibile dei valori presenti nella ricerca letteraria e nella narrativa italiana. Ho rivisto i vincitori degli ultimi 15 anni: tra loro ce ne sono almeno dieci di altissimo livello, ed è una media molto positiva per un premio. Alcuni di questi vincitori hanno costituito la base per una ricerca di altri autori. Anche la distribuzione degli editori è significativa. In 15 anni trovo 4 volte Einaudi, 5 Mondadori...».
Ferrari: «...siamo i più bravi».
Asor Rosa: «...3 Rizzoli, 2 Bompiani, 1 Feltrinelli. Non esistono gli editori minori. Qui si aprirebbe il discorso sul rapporto tra potenza editoriale e risultati del voto. Intanto ci tengo a dire che se leggessimo i dieci autori scopriremmo che hanno puntualmente rappresentato i passaggi di interesse non solo della narrativa ma del costume italiano: Sandro Veronesi con “Caos Calmo”, “La ferocia” di Nicola Lagioia... Credo che il Premio sia servito a rappresentare l’evoluzione di molti aspetti profondi della società italiana e della sua psiche. Perdura oggi tale tensione? Direi che si allenta un po’. L’orientamento che esprimono questi libri è di rappresentarci dei casi molto particolari, con una attitudine più riflessiva che interpretativa. Qualcuno è di una noia mortale. Non interpreta, riflette. Anche nella cinquina, ma non voglio dire di più. È un riflesso di un allentamento complessivo della ricerca narrativa? Sì. Da tempo scrivo che la ricerca dei poeti è più autentica di quella dei narratori: rinunciando a priori all’idea di vendere 300 mila copie, possono fare a meno di quelle forme di semplificazione e di attrazione psicologica da cui i narratori sono sempre più caratterizzati. Oggi la buona qualità media si solleva raramente a una qualità superiore. Se penso a “La solitudine dei numeri primi”, c’è uno sbalzo che qui è difficile cogliere».
Paolo Di Paolo: «Dobbiamo chiederci se i libri finalisti allo Strega riflettano davvero qualcosa. Lo dico perché rispetto ai candidati intervengono molte variabili a determinare la dozzina, la cinquina, il vincitore. C’è un aspetto preponderante del mondo editoriale, di cui Ferrari è l’esponente più evidente, e riguarda come lo Strega si sia sposato all’editoria specie nell’ultimo quindicennio...».
Ferrari: «Il Premio era nato già così».
Di Paolo: «Da una cerchia di scrittori... ».
Ferrari: «Il fatto che lo Strega si sia sposato all’editoria è l’aspetto che ne ha determinato sopravvivenza e successo».
Di Paolo: «Sì, ma Maria Bellonci era una scrittrice. Io parlo di dirigenti come lei che hanno avuto un ruolo da protagonista, ben più dei fondatori. È evidente che il sodalizio con l’editoria è un fatto di sopravvivenza, però è diventato un vizio di forma, dove il grande gruppo - lei dice il più bravo - forse è semplicemente il più potente. E falsa la prospettiva».
Ferrari: «Ecco un punto classico del dibattito sullo Strega: il grande editore che manipola e controlla. Tra i libri degli ultimi 15 anni alcuni erano esordienti assoluti, non erano costati un soldo: era stata fatta una scelta. Penso a Giordano o a Piperno. La ragione per la quale i piccoli editori non vincono lo Strega - e mi spiace dirlo ma lo farò, infrangendo un tabù - è che i loro libri piacciono meno di quelli dei grandi editori. Punto».
Di Paolo: «Non sono d’accordo. Al di là del valore di un libro come “La solitudine dei numeri primi”, a maggior ragione perché Giordano era uno sconosciuto ha influito la capacità di fare campagna elettorale. Non ho mai creduto che i giurati siano ostaggio di logiche editoriali, però che ci sia stata una strategia pesante su certi libri, vincitori già in partenza, è indubbio. Ciò non mi scandalizza, e neppure l’aria di distacco e di cinismo che lei ha sempre avuto parlando del premio: ma un po’ mi irrita. Dirà che parlo così perché non ho vinto. Io credo che parlare di grande editoria, sovrapponendole il valore assoluto, è ridicolo. Perché su 60 mila titoli che escono ogni anno noi non abbiamo assolutamente idea della qualità effettiva che può albergare ben oltre questi cinque libri».
Ferrari: «Sono un tifoso molto acceso dell’Inter. Ho lavorato per anni in Mondadori e la Mondadori è la Juventus del campionato editoriale. Noi interisti possiamo dire che comprano gli arbitri, ma i risultati sono lì. Credo che Mondadori sia stata sì favorita, ma non negli ultimi anni. Semmai all’inizio, da Maria Bellonci, che era un’autrice Mondadori».
Asor Rosa: «A metà degli anni Sessanta scrissi un articolo violentissimo contro i premi letterari, “strumento mefitico di padronanza della cultura italiana da parte della grande editoria”. Oggi ritengo che la polemica contro la grande editoria tenda a favorire soluzioni di organizzazione che non condivido. Penso all’allargamento dell’elettorato. Dovrebbe servire a sottrarre ai grandi editori il patrimonio rappresentato dai loro molti amici tra i 400 votanti. Ma pur essendo positivo verso lo sforzo che si sta compiendo dopo la scomparsa di Tullio De Mauro, credo che questa idea non stia né in cielo né in terra: può produrre inconvenienti qualitativi. Gente che vota non dico non sapendo né leggere né scrivere, ma quasi. L’elettorato deve essere qualificato, ristretto. E più soggetto al potere delle grandi case editrici: sono loro ad aver fatto la poesia e la narrativa italiana negli ultimi cinquant’anni».
Ferrari: «Concordo: l’allargamento della platea elettorale è ininfluente: vincono gli stessi che avrebbero vinto con l’elettorato ristretto. E noi italiani dobbiamo uscire da questa furia antielitaria. Il Pulitzer è assegnato da una giuria. I premi francesi pure. Sennò mettiamo i cinque titoli in una delle numerose consultazioni elettorali nazionali e facciamo votare l’elettorato più ampio possibile».
L’Espresso: «Questi libri si occupano di argomenti storici e politici. Però, rischiano di rispecchiare poco la società italiana. O meglio, riflettono, ma non interpretano. C’è un risvolto letterario del vento populista o la letteratura ne è immune?».
Asor Rosa: «Ho compiuto uno sforzo caduto nel nulla quando in “Scrittori e massa” ho sostenuto che il termine populismo è inadeguato alla realtà di questi fenomeni. Perché l’elemento socioculturale dominante non è più il popolo ma la massa. La differenza è enorme. Se al popolo si è sostituita la massa - cosa che potrebbe spiegare la realtà italiana - il referente della rappresentazione cambia aspetto. Perché la massa è costretta a giocare un ruolo che l’individuo proletario o colto giocava un tempo nei confronti del popolo e delle sue articolazioni. Come si fa a rappresentarlo? Non ho risposta. Questi poveri autori devono affrontare un compito finora mai affrontato. I risultati sono in via di elaborazione».
Seminara: « Ci sono stati gli Uomini e No, gli Apocalittici e Integrati, i Sommersi e i Salvati, poi i Soddisfatti e Rimborsati. Succede quando l’economia di mercato si occupa anche di cultura. Lo aveva già notato, nel ’68, Pasolini: la cultura è un fatto di mercato, gli editori fanno economia di consumo, il libro è un bene di consumo, non c’è più spazio per lo scrittore serio. I premi fanno bene perché aiutano a vendere i libri. Non fanno emergere i migliori in assoluto, ma li aiutano a farli tradurre. Delle piccole case editrici vorrei dire che sono loro, quasi esclusivamente, a fare ricerca sulla lingua. E spesso non riescono a gareggiare per i costi alti. Un libro che vince ha budget e investimenti ben prima di entrare nell’arena».
Di Paolo: «Aggiungo una cosa, senza polemica con Ferrari: che la Mondadori abbia pensato il premio come cosa sua, per anni, è evidente. Solo che questi meccanismi editoriali si svolgono sulla pelle dello scrittore, il meno influente della partita. So come si vive in quei mesi: vuoi difendere il tuo lavoro, ma sai che il risultato non dipenderà da te. Le telefonate che impazzano, le email: è una campagna elettorale. Che poi i giurati abbiano autonomia è sicuro. Tornando alla forma, se il premio è cartina di tornasole credo che più che il disorientamento dello scrittore di fronte al compito interpretativo rifletta il loro stato d’animo: non sentirsi attrezzati di fronte a certe complessità».
L’Espresso: «Il fatto che ci sia stato un appello politico - sull’Aquarius- sembra esprimere l’esigenza di un intervento sul presente che forse non c’è sui libri».
Di Paolo: «Da una parte c’è una perdita di autorevolezza come figura pubblica. Dall’altra, anche se uno scrittore sceglie, con onestà, di non inseguire il presente, ciò che accade lo mette a disagio».
L’Espresso: «Questa narrativa dunque riflette la crisi di ruolo dell’intellettuale. Edoardo Albinati ha descritto chiaramente il meccanismo: l’intellettuale commenta, interpellato dice la sua. Quando dovrebbe dire solo la verità».
Asor Rosa: «La difficoltà degli scrittori è parte di una difficoltà del mondo intellettuale, certo. Una volta c’erano Pasolini, Calvino, Gadda, Bilenchi, Pratolini, e il nesso attività letteraria e riflessione intellettuale era assolutamente lineare. Oggi chi è rimasto ad esprimere una posizione di ordine generale a partire da un fatto? In tre o in quattro».
L’Espresso: «I libri in cinquina indicano un lavoro partito un anno fa, quando cominciava l’onda populista. Sono stati scelti, pubblicati e lanciati. Mondadori ha scelto D’Amicis. C’erano altri libri che avrebbero potuto rappresentare il presente ma non ha voluto portarli avanti. Anche questo è un modo con il quale i grandi editori controllano».
Seminara: «Lo Strega nasce nel 1947. C’era una militanza dello scrittore fisiologica. La separazione tra industria editoriale e società letteraria è avvenuta dopo. Questa degenerazione dell’identità, che vivo sulla mia stessa pelle, attiene al contesto tecnologico in cui viviamo. E alla fine del ruolo del critico letterario, estromesso dai giornali e sostituito dal blogger. Ce ne sono di bravissimi, però i veicoli della letteratura sono cambiati. La lingua ne è coinvolta: diventa ibridata, contaminata, non più letteraria ma neanche giornalistica. Già Calvino parlava di “interlingua”, fungibile, plasmabile, facile da tradurre. Più che pensiero debole siamo di fronte a una lingua debolissima».
L’Espresso: «Siamo ormai prossimi alla finale. Chi vincerà lo Strega 2018? Fate un pronostico».
Ferrari: «Diversamente da tutti i complottisti, non lo so. Ho un’idea dei due principali contendenti, che poi sono quelli arrivati primo e secondo».
Di Paolo: «Se la giocano Janeczek e Balzano. Si sa che Einaudi tira un po’ il freno. Io mi auguro che vinca una delle tre donne, perché è inaccettabile che negli ultimi quindici anni non abbia mai vinto una».
Asor Rosa: «Il nome del vincitore non lo voglio pensare, e non lo voglio dire».
Seminara :«Chi vincerà? Il più votato».
hanno partecipato al dibattito
Marco Damilano, Leopoldo Fabiani, Angiola Codacci-Pisanelli, Sabina Minardi