La storia del più colossale e incredibile flop di Peter Sellers diventa a sua volta un film

Arriva a Venezia un lungometraggio sul disastro dell’attore inglese, girato tra naufragi e psicodrammi. Eppure un presagio di come sarebbe andata a finire lo ebbe il primo giorno: la nave su cui si girava si incagliò su uno scoglio per l’ubriachezza del capitano

Tra i cento e più film che dal 29 agosto all’8 settembre si abbatteranno sulle sale del Lido ce n’è uno, fuori concorso alle Giornate degli Autori, che sembra riassumere alla perfezione le parole chiave di questa 75ma Mostra del Cinema di Venezia: Storia, Memoria, Catastrofe. E Ritorno. Ritorno tra i luoghi e i protagonisti della Catastrofe. Per raccontare, interpretare, magari capire.

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Parliamo di “The Ghost of Peter Sellers”, che L’Espresso ha visto in anteprima. Un documentario spericolato e sincero fino all’autolesionismo di Peter Medak, il regista inglese di origine ungherese che nel 1972 aveva conquistato le platee internazionali con “La classe dirigente”, black comedy con Peter O’ Toole che sfiorò l’Oscar nei panni di un aristocratico schizofrenico. Per sentirsi proporre pochi mesi dopo dall’altro grande mattatore del cinema britannico, Peter Sellers, di dirigere il suo prossimo film: una storia demenziale di pirati e cacce al tesoro da girarsi a Cipro, “Ghost in the Noonday Sun”. Se a questo punto vi state grattando la testa perplessi, niente di male: “Il fantasma di mezzogiorno”, come suonerebbe la traduzione letterale, è a sua volta un film fantasma che non arrivò mai nelle sale ma uscì solo in video-cassetta dodici anni più tardi. E sarebbe rimasto negli annali come una delle più fragorose (e annunciate) catastrofi che il cinema ricordi. Malgrado il genio di Peter Sellers, infatti, malgrado il budget di tutto rispetto, il sostegno di grandi professionisti e l’energia del 35enne Peter Medak, che da quel disastro non si sarebbe mai veramente ripreso, tutto ciò che poteva andare storto lo fece. Fin dal primo giorno. Quando la nave pirata che era il set principale del film, un tre alberi allestito sullo scafo di un vecchio peschereccio africano, andò mestamente a incagliarsi su uno scoglio mentre entrava in porto per l’ubriachezza del capitano.

Era solo l’inizio. Il resto sarebbe stato anche peggio. Reduce da un breve e disastroso amore con Liza Minnelli, l’ingovernabile protagonista della “Pantera rosa” sbarcò a Cipro catatonico, probabilmente senza aver neanche letto il copione del film. Appena preso possesso della sua villa, con un complicato rituale sulle note del sitar di Ravi Shankar, silurò i due produttori delegati a seguire le riprese, giusto per far vedere chi comandava.

Dopodiché decise che l’intero progetto faceva acqua e passò giorno dopo giorno dai ritardi ostentati alle mattane depressive, dall’ostilità subdola alla provocazione diretta, dalla resistenza passiva al boicottaggio in piena regola. Trasformandosi per qualche tempo, con dieci anni di anticipo sullo “Zelig” di Woody Allen, in uno dei suoi primi grandi personaggi di successo, il sindacalista pazzo con baffetti alla Hitler di “Nudi alla mèta”, per sobillare la troupe a ribellarsi contro il regista incapace e i produttori lazzaroni che costringevano tutti a patire ogni giorno il mal di mare.

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E poiché nemmeno questo riuscì a bloccare i lavori, per svignarsela a Londra simulò un attacco cardiaco, salvo apparire pochi giorni dopo a spasso con la principessa Margaret su tutti i rotocalchi inglesi. Fin qui, comunque, niente di davvero eccezionale. Di star capricciose e naufragi kolossal la storia della settima arte è piena. A dare proporzioni epiche e un’insolita portata simbolica a “The Ghost of Peter Sellers” è l’accanimento con cui Medak rievoca queste disavventure senza smettere di autoflagellarsi e di chiedersi perché. Perché andò così. Perché fece il film pur sapendo fin dal principio che sarebbe andata così. Perché nessuno fermò la macchina. Perché, malgrado le analisi finanziarie e le relazioni allarmate degli executive, quello sciagurato progetto rotolò fino in fondo alla china, come se nessuno potesse o forse volesse opporsi al Destino.

Non mancano risvolti psicoanalitici che proiettano questo fallimento economico e personale in una dimensione epocale. Dalla parte di Peter Medak, oggi energico 80enne, ci sono i complessi di colpa di un ebreo ungherese cresciuto fingendosi cristiano nella Budapest occupata dai nazisti, la perdita precoce del fratello e del padre, il suicidio della prima moglie mentre lui girava “La classe dirigente”. Insomma l’eterna insicurezza dell’immigrato di successo, che sceglie di fare cinema «perché è la fuga ideale: sei così occupato a creare una vita parallela che la tua passa in secondo piano e perde importanza».

Sul lato di Peter Sellers la faccenda è più semplice, ma forse no. Il grande trasformista del “Dottor Stranamore” (tre ruoli diversi) e di “Hollywood Party”, celebre per gli amori infelici e le bizzarrie sul set, non perdeva occasione per dire di esistere solo nel lavoro: «Se mi chiedeste di recitare me stesso non saprei cosa fare. Non ho idea di chi o che cosa io sia». Ma in film come questo, meno strutturati dei suoi capolavori, questa instabilità sfiorava una follia grandiosa e rivelatrice. La follia di chi inconsapevolmente porta un intero sistema alla rovina, svelandone le falle e l’irrazionalità.

Il cuore segreto della Catastrofe insomma, che è anche uno dei temi ricorrenti di questa Venezia, mai così attenta al passato, più o meno recente, e al bisogno di analizzarlo con gli strumenti di quella potente macchina investigativa che continua a essere il cinema. Ed ecco perché “The Ghost of Peter Sellers” scavalca l’autobiografia per farsi riflessione sui meccanismi che governano più o meno consapevolmente le nostre scelte. Illudendoci di esser liberi quando invece siamo solo rotelline che rispondono a un programma superiore. Ma ecco anche il motivo per cui ci appassioniamo tanto ai film-fantasma, sospesi, eternamente alla ricerca di un senso, una forma, una fine. Quasi che questa incompiutezza fosse lo scopo inconfessabile cui tende ogni autentica creazione.

Come ci ricorda l’altro grande film risorto dal passato che la Mostra proporrà in anteprima mondiale il 31 agosto, un giorno dopo quello di Medak: il capolavoro annunciato “The Other Side of the Wind”, leggendario film-testamento girato da Orson Welles tra il 1970 e il 1976 senza mai riuscire a ultimarlo, e oggi finalmente completato da un’équipe di premi Oscar guidata da Frank Marshall. Non un topo di cineteca ma lo storico produttore di Spielberg, che con il sostegno e soprattutto i quattrini di Netflix ha riordinato le 100 ore di girato lasciate dall’autore di “Quarto Potere”. E consultando come una Bibbia lo script e gli appunti di regia originali ha aggiunto un’ora abbondante ai 50 minuti già montati da Welles, dando forma definitiva a quello che è stato per decenni il più celebre “incompiuto” della storia del cinema.

Il risultato dell’impresa è stato mostrato finora solo a pochi eletti del calibro di Paul Thomas Anderson, Quentin Tarantino e Peter Bogdanovich in una proiezione top secret a Santa Monica, California, per essere dirottato su Venezia dopo la polemica suicida aperta da Cannes contro Netflix, polemica che oltre a Welles ha portato in dote al Lido un bel pacchetto di autori prestigiosi prodotti dal colosso dell’on demand come Alfonso Cuarón e Paul Greengrass.

Le discussioni comunque sono appena cominciate. Anche perché dietro i diritti di “The Other Side of the Wind” c’è una complessa questione ereditaria che contrappone Beatrice Welles, figlia dell’ultima moglie del genio, l’italiana Paola Mori, e la croata Oja Kodar, ultima compagna di Orson, cosceneggiatrice del film nonché coprotagonista accanto a John Huston, Peter Bogdanovich, Susan Strasberg, e a Dennis Hopper, Paul Mazursky, Claude Chabrol, Stéphane Audran nei panni di se stessi. Tutta pubblicità per la piattaforma guidata da Ted Sarandos, che ai classici non ha mai dedicato la minima attenzione, ma stavolta promette addirittura di portare almeno per qualche giorno il film in sala.

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