L’importanza delle relazioni. La voglia di comunità. La cura verso le cose, antidoto al rischio di alienazione della contemporaneità. È l’attenzione all’uomo l’eredità più grande del pensatore scomparso a novembre

Remo Bodei
Non capita di frequente che un’intera comunità si raccolga nel rimpianto di un suo esponente, anche illustre, come è accaduto da parte della filosofia italiana per Remo Bodei - ricordato, a un mese dalla scomparsa, lunedì 9 dicembre alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove ha insegnato per anni. Ciò si deve anche al fatto che, oltre a una sterminata cultura, non solo filosofica, Bodei aveva una profonda generosità umana. Si tratta di un dato personale, ma non privato, perché ha un rapporto intrinseco con quello che è stato il suo peculiare modo di fare filosofia. Egli ha sempre avuto un interesse e una cura per gli altri che trasparivano da tutti i suoi atteggiamenti. Da questo punto di vista si può dire che sia stato un vero pensatore della relazione, nel solco degli autori che ha più amato - Agostino, Spinoza, Hegel. Ma anche, da un altro punto di vista, Bloch, Benjamin, Simmel.

Ciò non contrasta con quella ricerca sull’identità della coscienza individuale che è stato il filo conduttore delle sue opere. Perché l’identità, per chi come lui ha pensato in compagnia di Hegel, non è concepibile fuori dalla relazione, è fin da sempre intessuta con la differenza e l’alterità. Da “Scomposizioni” a “Destini personali”, a “Immaginare altre vite” - alcuni tra i suoi libri più belli - Bodei ha pensato l’identità al cospetto dell’altro, facendone, come scriveva Rimbaud, il nucleo stesso dell’io. È qualcosa che aveva sostenuto anche Giovanni Gentile, affermando non solo che l’individuo è interno alla comunità, ma che la comunità è interna all’individuo. Che l’individualità è abitata dalla molteplicità. Già Agostino del resto - raccontato magistralmente da Bodei in “Ordo amoris” - sapeva che l’anima, come la volontà, si forma nel colloquio, e anche nel conflitto, con se stessa. In questa idea di interrelazione c’è un’opzione per la polis che ha sempre tenuto Bodei lontano dai dispositivi immunitari che sacrificano la comunità alla pretesa sicurezza dell’individuo. Come Spinoza - e contro i teorici, antichi e recenti, della paura - egli ha sempre pensato che gli uomini siano rafforzati, e non minacciati, dal contatto con i propri simili.

Ma quando si parla di relazione, nella sua opera, non bisogna limitarla a quella umana. Ad essa si affianca un’alterità più radicale, che sfonda l’orizzonte personale, per coinvolgere tutti gli esseri, animati e inanimati, gli animali, le cose, le macchine, cui Bodei si rivolge anche nel recentissimo “Dominio e sottomissione”. Vita e tecnica costituiscono le polarità indissolubili che si è sempre sforzato di articolare, evitando i pregiudizi opposti della tecnofilia e della tecnofobia. Remo è sempre stato consapevole dei rischi di “servitù volontaria” dell’uomo moderno. In gioco è la dialettica tra libertà e sottomissione a potenze estranee - nel secolo scorso incarnate dai dittatori totalitari, oggi dagli algoritmi. Se tale è la diagnosi, è difficile ricavare una prognosi precisa. Non è facile stabilire in quale proporzione si mischino, nella sua prospettiva, timore e speranza, inquietudine e fiducia.

Quanto - per dirla con le figure hegeliane che danno il titolo al suo celebre libro su Hegel - lo sguardo della civetta penetri la coltre di oscurità in cui continua a scavare la talpa di una storia spesso enigmatica. Credo che Bodei, a chi lo interrogasse sul futuro, avrebbe richiamato quanto rispondeva la sentinella di Weber - è ancora notte, anche se ogni notte, prima o poi, vede sorgere l’alba. Di Weber, egli condivideva la fiducia nella ragione, ma anche il timore che la gabbia d’acciaio potesse richiudersi di nuovo sulle nostre vite. Eppure riteneva che tale rischio, anziché indurci alla rassegnazione, debba spingerci a guardare oltre le frontiere che le generazioni passate hanno elevato, ricostruendo un nuovo patto tra le generazioni.

Bodei, da grande hegeliano, ha sempre tenuto conto degli elementi negativi che attraversano la vita, senza mai cedere al loro ricatto: non ha mai frequentato l’Hotel Abisso – né le camere alte di Heidegger né quelle basse di Adorno. Non è mai stato attratto dalle vertigini del nulla né imprigionato nelle aporie della dialettica negativa. Ma non si è mai associato, neanche negli spensierati anni ’80 e ’90, ai profeti di un’umanità libera dal bisogno, situata all’incrocio tra una globalizzazione senza confini e una democrazia senza avversari. Ha sempre riconosciuto, e studiato, il tragico, il limite, il brutto, il delirio, l’ira. Ogni suo libro ha parlato una doppia lingua, sperimentando tensione e dissonanza - tra ragione e passione, logos e pathos, limite ed illimitato. Il “negativo” non cessa di inasprire i conflitti, di lacerare i rapporti, di allargare le ferite dell’esistenza. Ma senza mai chiudere definitivamente la partita. E anzi rigenerando il tessuto della vita e della storia.

Questo ha significato per Bodei «comprendere il proprio tempo nel pensiero», come diceva Hegel. Proprio il tempo, del resto, è stato oggetto continuo della ricerca di Bodei. Il pensatore del tempo al quale più si è confrontato - oltre naturalmente ad Agostino - è stato Ernst Bloch, di cui ha ricostruito con rara finezza il multiversum. Incrociando piani eterogenei del tempo, Bodei ha riconosciuto il significato più intenso del termine “contemporaneità”. Contemporanea non è solo l’ultima epoca del mondo, ma la compresenza di tempi diversi in uno stesso tempo. Cos’altro aveva teorizzato il suo Agostino se non la confluenza di presente, passato e futuro nella distensione della coscienza? Solo in questo senso la dimensione del tempo tocca quella dell’eterno. Eternità del tempo è la pienezza di una vita coincidente con se stessa, sostenuta da una memoria aperta alla speranza.

La contemporaneità - nel senso della compresenza di tempi diversi - è stata tematizzata da Bodei in uno dei suoi libri più belli, intitolato “Piramidi di tempo”. In esso l’esperienza del déjà vu, o del déjà vécu, è qualcosa che va al di là del fenomeno psicologico già analizzato da Freud e raccontato da Proust. Il già visto, o il già vissuto, allude alla presenza del passato nell’attualità. Non nel senso di un’origine perduta da ritrovare, ma semmai in quello, elaborato da Vico, dello stratificarsi delle età del mondo, della sovrapposizione tra logos e mito, linguaggio e immagine, ragione e corpo. Le epoche del mondo non si succedono nel tempo, ma sono i diversi angoli di visuale da cui un medesimo mondo può essere guardato. Il ricordo del passato, conficcato nel cuore della contemporaneità, è la soglia critica attraverso la quale non aderiamo mai completamente alla superficie degli eventi, non ci appiattiamo necessariamente sui miti dell’oggi, conserviamo quella che Hannah Arendt chiamava facoltà del giudizio.

Il passato non è ciò che precede il tempo, e neanche l’inizio, ma il limite che lo taglia, rendendoci capaci di sapere dove siamo, cosa ci appartiene, a cosa apparteniamo. In questo senso Bodei è un autore classico - lo è stato ancora prima di andarsene. Interprete di classici in interpretazioni anch’esse classiche. Classico non è solo qualcosa che non muore. Classico è ciò che, nella scomparsa, ci rimanda alla vita. Che c’insegna cosa significa vivere e morire. Che espone la vita alla prova della morte e che riconosce anche nella morte il profilo della vita.