Le migrazioni raccontate da un gruppo di artisti in una mostra, a Napoli, voluta dal fumettista e regista Gian Alfonso Pacinotti. Che dice: «Accoglierli fa bene anche a noi»

«Il razzismo non conviene». Parola di Gipi

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È cominciato tutto con i “vu cumprà”, vent’anni fa. Quei ragazzi che arrivavano in Italia dal Senegal erano chiamati così da tutti, anche dai media. Per dargli un nomignolo veniva storpiata una frase che utilizzavano per tirare su due lire per campare. Ecco, per me da quel momento è cominciata quella degenerazione che oggi fa sì che molti italiani non considerino i migranti delle persone, ma solo dei numeri. E questa è una cosa che mi manda ai pazzi». Gipi invece è uno di quelli che i migranti non li conta, li racconta. Gli dà un volto, un nome, una storia. Fissa tutto su carta con matita e acquerelli. Usa l’arte per dare forma a un mondo e chi ci vive: persone, non numeri.

Cinquantacinque anni, pisano trapiantato a Roma, Gian Alfonso Pacinotti - ma per tutti Gipi - è un fumettista conosciuto e apprezzato, non solo in Italia. Tanti i riconoscimenti, a cui ora si aggiunge quello di “Magister” di Comicon 2019, il Salone internazionale del fumetto che si tiene a Napoli dal 25 al 28 aprile. «È un ruolo che non mi piace, il potere non fa per me, mi peggiora. Per questo ho rifiutato quando mi hanno proposto di fare il giurato al Festival di Venezia. Ma Matteo (Stefanelli, il direttore artistico, ndr) è un grande amico: dopo tre mesi che me lo chiedeva e gli rispondevo di no, ho ceduto. A me però le cose piace farle, non giudicarle: non sono nessuno per dire “questo sì, questo no”, mi infastidisce».
Tavole da “Dramma marocchino”, in mostra a Napoli

Però il suo ruolo le ha permesso di dedicare una mostra alle storie dei migranti. Ci saranno tavole di dodici fumettisti dall’Italia, Africa e Medio Oriente. Perché questa scelta?
«È stata una decisione quasi automatica, soffro molto il momento che stiamo vivendo. Mi piaceva l’idea di leggere quello che raccontano artisti che vengono da quei posti, non solo quelli italiani. Anche perché sono storie molto raccontate, sui giornali e in televisione, spesso in modi terrificanti eh, però pochissime volte c’è la voce dei protagonisti, di chi quelle storie le ha vissute in prima persona. E poi ero anche curioso di vedere come raccontano in altri Paesi».

C’è una sensibilità diversa nel raccontare le migrazioni dall’altra parte del Mediterraneo?
«Secondo me non si possono fare delle categorie. Non mi sento di dire che le persone che vengono dalla Tunisia raccontano alla tunisina e quelle che vengono da Roma alla romana. Ognuno ha la sua voce, indipendentemente dal posto in cui vive. Poi è chiaro che se sei più vicino a un evento, fisicamente, con il sentimento e le emozioni, riesci ad avere un taglio interessante anche agli occhi di chi poi ti legge».

Come sono stati selezionati gli artisti?
«Io non ho fatto nulla. In realtà per questo festival sono come un papa, dico: “Voglio questo”, e loro poverini impazziscono per accontentarmi. Il direttore artistico è uno che di fumetto ne sa tantissimo, molto più di me. Gli ho chiesto se ci sono autori dell’Africa, non quella che si affaccia sul Mediterraneo, ma quella più lontana da noi. E lui li ha trovati».

Ha detto che oggi in Italia i migranti sono considerati più numeri che persone. Come lo spiega?
«Penso che ci sia una spaccatura in due, nettissima. Da un lato ci sono le persone che si informano, si interessano, cercano di capire. E dall’altro c’è la narrazione filogovernativa, secondo me completamente “scocomerata”. Qualche giorno fa un episodio mi ha colpito molto...».
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Quale?
«Quello di una coppia sulla nave Alan Kurdi, marito e moglie. Lei, 23 anni, incinta, ha avuto un attacco epilettico sulla nave e, con “gran misericordia”, le è stato concesso di essere trasferita su un’altra nave per farla sbarcare. Al marito no: non è potuto andare con lei. Io impazzisco quando sento queste storie. E secondo me solo se hai fatto un processo mentale che ti porta a non considerarle più persone come te puoi tollerare una cosa del genere senza starci male. L’idea che ti portino via il tuo amore, ed è incinta, ha 23 anni, con un attacco epilettico, con te che non la puoi seguire, senza che tu abbia fatto niente di male... Io sarò troppo sensibile, o buonista come mi dicono spesso, ma a me questo mi sembra fuori di testa».

Non fa solo fumetti, ma anche cortometraggi. Cosa cambia tra la matita e la macchina da presa?
«Nel fumetto sei in una condizione di solitudine continua ma al tempo stesso sei Dio, puoi fare tutto quello che ti pare. Con i cortometraggi quello che abbiamo fatto fino ad ora, con Gero Arnone e Francesco Daniele, è stato costruire delle microstorie che raccontino la società. Ed è molto divertente... O meglio è stato molto divertente, perché adesso non so se continuerò».

Perché?
«Perché mi sto avvelenando. Per fare satira devi essere molto legato a quello che succede e ultimamente lo soffro molto. L’idea di dover passare la giornata a leggere le sparate dei vari Salvini e compagnia bella... Mi sembra di buttare via il mio tempo. Certo, c’è il divertimento e a volte la risata, quasi sempre amara, ma sul piano dell’esistenza non incidono minimamente. E quindi di respirare per tutto il tempo un’aria che non mi piace per fare qualcosa che è sì divertente, ma forse inutile, mi sta togliendo la voglia di continuare».

Crede che questo clima di grande rabbia, di cattiveria ad ogni costo, sia solo di passaggio?
«Io sono un ottimista pessimista, penso che alla fine gli esseri umani se la cavino sempre. Il problema è che nel suo percorso l’uomo casca in buche molto brutte e profonde. E in questo momento ci siamo cascati, ma è normale. Moltissimi danno per scontata la condizione di pace in cui viviamo e stanno giocando in tutti i modi, i più pericolosi possibili, perché questa salti. Poi quando salterà, ce ne pentiremo e ci chiederemo come è stato possibile. Le persone per bene non pensano mai che possano accadere le cose brutte. Mi ricordo la mia mamma che mi raccontava di quando le bombardarono la casa durante la guerra: le morì il padre e una cugina, che era incinta, lei rimase sotto le macerie e venne salvata per un pelo... Mi diceva sempre: “Ma guarda, io veramente non me l’aspettavo una cosa del genere”. Era sorpresa. E io dicevo: “Scusa mamma, ma sei scema? Era la Seconda guerra mondiale, bombardavano Pisa un giorno sì e l’altro pure, e non ti aspettavi che una bomba ti cadesse sulla testa?”. E lei, convinta: “Non me lo sarei nemmeno mai immaginato”. Ho sempre riflettuto su questo, è diventata una delle mie tante fissazioni».
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Le altre quali sono?
«L’Olocausto: quando ero ragazzo a volte ha avuto anche risvolti negativi... Avevo fatto un voto che ogni volta che c’era in tv un programma sull’Olocausto avrei dovuto guardarlo, qualsiasi altra cosa stessi facendo in quel momento. Così anche quando stavo con la fidanzata, che magari stavo per baciare, cominciava il documentario su Auschwitz e lo guardavo tutto. Non era il massimo… Poi ne ho tante altre sul comportamento dei popoli, su come diventino formiche che si fanno del male da sole, che si autodistruggono piano piano».

E pensa che abbiamo ripreso a farlo?
«A volte certe cose non si fermano, sono come le malattie, devono fare il loro corso. Te le prendi e passano quando devono passare. L’unica cosa che puoi fare è riguardarti . Però si potrebbe alzare un pochino più la testa: quando vai al bar e vedi uno che si comporta da razzista o da nazista con un’altra persona reagisci, glielo fai notare. Io poi farei un bel faccia a faccia con uno di loro...».

E cosa gli direbbe?
«Se escludiamo lo sterminio globale - perché quello lo dobbiamo escludere dal ragionamento - la tua idea qual è? Cosa vuoi tra vent’anni, quando magari sei anziano, e sei circondato da delle persone che ti detestano per come sono state trattate? Sei sicuro che sia una scelta intelligente?”. Questo gli direi. Non dico che bisogna volere bene alle persone che arrivano a ogni costo, non bisogna essere altruisti per forza, ma almeno non autolesionisti: una sorta di egoismo funzionale».
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In altre parole, vorrebbe spiegargli che il razzismo non è un buon investimento.
«Ma io dico se una persona arriva qui, con tutto quello che ha passato, hai due strade davanti: o la fai diventare un cittadino italiano e, rischiando di essere estremamente sdolcinato e retorico, dico che potresti farlo diventare il miglior cittadino italiano. Se tu l’aiuti in un momento di difficoltà, ti sarà riconoscente e magari diventerà un cittadino migliore di me, per esempio. E i suoi figli sarebbero a loro volta dei buoni cittadini che non hanno la vergogna di mettere il tricolore al collo come adesso ce l’ho io. Potresti fare del bene al Paese. L’altra strada qual è? Emarginarli, spingerli sempre ai margini della società, di modo che lui e i suoi figlioli avranno la possibilità di vivere solo su basi criminali? Perché alla fine tutti devono trovare un modo per mangiare. E allora qual è il guadagno del trattarli male? Io non lo capisco».

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