I bambini impiccati a un albero. Il Papa colpito dal meteorite. Hitler in ginocchio. L’artista italiano più famoso al mondo racconta le sue origini, la popolarità, le intuizioni. E l’ossessione di sparire

Maurizio Cattelan

«Mi ha sempre affascinato l’idea di non venire da nessun posto, di non avere origini e, in stile Bourne Identity, trovo un passato ignoto molto più interessante di uno miserabile... ».

Maurizio Cattelan, tra gli artisti italiani più famosi al mondo, racconta sé stesso, l’ispirazione, il senso delle sue tante provocazioni, in un’intervista in uscita sulla rivista Riga. Ne anticipiamo un ampio stralcio.

Marco Belpoliti: Nelle conversazioni e interviste che hai rilasciato capita che ti presenti come un self made man. Quanto questa figura ha a che fare con la tua arte?
«In stile Bourne Identity, dicevo. La mia infanzia è sicuramente più vicina alla seconda condizione che alla prima e, come tutto ciò che ho vissuto, di certo ha influenzato il mio lavoro. Credo che valga per tutti: quello che viviamo, specie da piccoli, influenza le nostre scelte e il nostro modo di vedere e interpretare il mondo. E quando hai avuto un paio di disgrazie in famiglia, maestri e studi diventano superflui. Dal contesto in cui cresce, ognuno si sceglie il proprio percorso intrecciando tre fattori: abilità, motivazione e attitudine. L’abilità è cosa sei capace di fare. La motivazione determina cosa fai, l’attitudine quanto bene lo fai. La mia fortuna consiste nell’aver avuto la forza di intrecciarli così bene da mettere una distanza e emanciparmi dal passato da cui provengo».

Belpoliti: Hai detto in una conversazione del tuo odio per il lavoro provato da giovane, agli inizi. È ancora così?
«Non potrei fare niente di diverso da quello che faccio, e ogni giorno mi impegno per far sì che domani sia ancora così. Non è esatto parlare di odio, ma è un sentimento altrettanto viscerale, una voce nella testa che mi dice: stai perdendo il tuo tempo sulla terra a fare qualcosa che non ti piace e che non ti rende migliore. Ecco, credo che questo pensiero non dovrebbe farlo nessuno, mai. Ognuno dovrebbe applicare tutte le proprie energie a capire il senso della sua esistenza sulla terra, e perseguire quell’obiettivo senza incertezze e senza paura di fallire. La differenza tra le persone sta solo nel loro avere maggiore o minore accesso alla conoscenza, e nello sforzarsi di volervi accedere quando le condizioni di partenza non lo permettano. Tutte le scelte che ho fatto sono volte a ricercare quell’accesso. Sono un fedele del libero arbitrio più che del destino: in questo senso la religione cattolica non ha avuto nessuna influenza su di me, mentre l’eresia luterana è più nelle mie corde: sono convinto che il destino non sia altro che la somma delle nostre scelte».

Belpoliti: Mi è capitato di leggere una tua ricostruzione degli inizi del tuo lavoro in cui dicevi che quando hai cominciato a fare arte stavano tramontando il Neoespressionismo e la Transavanguardia e la tua arte era un avvicinamento alla realtà.
«Non ricordo di quando fosse quell’intervista e a cosa mi riferissi di preciso, ma, se volessimo riattualizzare quel pensiero al mio di oggi, posso dire che da qualche tempo a questa parte non riesco a vedere il mio lavoro in dialogo con il pubblico dentro alle gallerie o ad altri spazi espositivi. Il pubblico che mi interessa è quello che cammina nelle piazze, o, se nel museo, quello che va al cesso. Così come se Maometto non va alla montagna, la montagna va a Maometto, allo stesso modo l’arte, per avere un significato al di là del delirio di onnipotenza del singolo artista, ambisce a relazionarsi con la realtà e a essere universale, evitando di aspettare nel museo o nella galleria che qualcuno entri a guardarla. Banksy e gli altri street artist hanno trovato il loro modo, io sto ancora perfezionando il mio».

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Belpoliti: Vanishing, scomparire: sembra un tema molto presente nelle tue opere. Nelle tue opere c’è la presenza dello scomparire. Perché?
«Credo sia fondamentale che l’artista cada nell’oblio, perché le sue opere possano vivere. Mi è stato chiaro dopo la mostra a La Monnaie: per quell’occasione ho fatto una scelta molto ristretta di lavori che ritengo rilevanti. Quelli in particolare, una volta messi uno accanto all’altro, si aprono a una varietà di significati diversi e nuovi. La mostra a Parigi è stata molto utile per tirare una linea tra me e i miei lavori, oltre che una grande occasione di mostrarli in silenzio, senza che siano messi in ombra dalla figura del giullare che mi trovo cucita addosso».

Elio Grazioli: Ti ho conosciuto prima che partissi per New York e mi sembra che ci sia stato un salto decisivo tra quello che avevi fatto prima e ciò che hai fatto una volta sbarcato lì. Cosa ha fatto scattare la molla?
«La molla era già scattata, altrimenti non avrei trovato la motivazione per partire. Una volta lì, come un nuovo Cristoforo Colombo, ho scoperto un mondo estremamente stimolante sotto tanti punti di vista. Non so se si possa fare un paragone, ma credo sia stato uno shock culturale tanto quanto quello che potresti avere oggi se andassi a Buenos Aires, o Città del Capo o Shanghai. È tutto così diverso da quello che conosci e dalle tue aspettative, che ti investe e ti cambia per sempre».

Bianca Trevisan: Quanto la popolarità condiziona la poetica? E viceversa?
«Ritengo che non debba mai accadere: gli artisti devono essere sempre disposti a rischiare tutto per la loro idea, a prescindere da quanto possa essere impopolare. Come esploratori, come Ulisse alla fine dell’Odissea, la voglia di mettersi in mare per scoprire nuovi territori è innata, non può mai mancare. Esplorare l’ignoto è l’unico modo che conosco per fare arte».

Grazioli: Mi interessa la tua “teoria” del fallimento, che riporta le cose per terra nel senso del non idealizzare, del non lasciarsi prendere dai ragionamenti astratti. Penso anche che questi caratteri appartenessero a un’ondata di artisti italiani che tu hai saputo interpretare in modo più efficace di tutti. Penso che il tuo riconoscimento sia dovuto a questa tua capacità di sintesi. Mi chiedo anche perché gli stranieri non colgano la peculiarità di una generazione artistica così interessante.
«Hai toccato molti temi in una sola domanda, mi riesce difficile isolare le risposte: da un lato non sono né un critico né uno straniero, né l’unione di queste due, quindi mi riesce difficile immaginare quali siano le ragioni di una mancata attenzione mediatica verso una certa generazione, se questa c’è mai stata. Non ho mai visto scelte diverse per il mio percorso, e non saprei trarre una teoria da quello che ho fatto, perché è stato tutto estremamente istintivo. Ho scelto ciò che era meglio per me, senza troppe strategie. Mi fa piacere che tu dica che è stato un modo efficace, ma non credo di poter insegnare niente a nessuno».

Trevisan: Quanta importanza hanno i titoli all’interno della tua opera?
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«Quanto il cognome: fanno parte dell’identità del lavoro, se mancano è come se mancasse l’informazione su da dove vieni, chi sono i tuoi antenati. Nonostante ciò, moltissimi dei miei lavori sono intitolati Untitled, e a volte mi sento come se li avessi abbandonati. Ma è anche vero che peggio di un senza titolo c’è un pessimo titolo. E io ho sempre scelto di correre il rischio minore».

Belpoliti: Hai detto che la tua arte è terapia. Per guarire da qualcosa?
«Non credo di essere né il primo né l’ultimo artista a vederla così. Se non fossimo tormentati a qualche livello, non avremmo molto da dire. L’arte tratta problemi universali e li esorcizza per tutti, anche se le visioni di cui è fatta partono dai singoli artisti. Per quanto mi riguarda, ogni lavoro può essere considerato l’immagine di un problema capito e interiorizzato: tra i 129 lavori esposti al Guggenheim ce ne sono moltissimi che vorrei finissero in oblio, e che non ritengo più utili per nessuno, di per sé. Si tratta di momenti di passaggio, necessari per arrivare a quei dieci, massimo quindici lavori che salverei nella maggior parte dei giorni».

Belpoliti: Gran parte delle tue opere parlano d’amore, e riguardano la perdita. Le due cose sono collegate?
«Chiunque abbia mai amato sa che l’amore è perdita, non serve certo che lo dicano le mie opere. O meglio, grandissima parte dell’arte si basa su questo da secoli, a testimonianza che i temi dell’umanità sono sempre gli stessi, quello che cambia sono le domande che ci poniamo in proposito».

Belpoliti: Hai affermato di essere un artista intuitivo. Cosa significa?
«Sono andato a verificare sul dizionario Treccani: “riferito a persona, in cui l’intuizione predomina sull’attitudine al raziocinio” e prosegue “conoscere, apprendere intuitivamente; arrivare intuitivamente a comprendere una verità, a risolvere un problema”. Di sicuro ho anche una parte razionale, una sorta di rete di sicurezza per arginare ansie e insicurezze, ma nella maggior parte dei casi agisco in base all’istinto, che mi porta alla cosa giusta nel momento giusto più di qualsiasi ragionamento. In una personalissima parafrasi di Amici miei, l’intuizione è fantasia, decisione, velocità d’esecuzione».

Grazioli: Un’opera mi frulla in testa: We, con due Cattelan sul letto. Perché?
«Ciò che mi spinge a intraprendere una strada è la convenienza, in termini di semplicità del pensiero: un autoritratto è qualcosa di veramente lineare, facile come guardarsi allo specchio alla mattina. Un doppio autoritratto cela confessioni, non sempre consapevoli, sul proprio sé interiore. Nell’equilibrio tra semplicità e interiorità l’immagine diventa perturbante: ci è familiare ma anche estranea. Adottare la propria immagine è il frutto di un’introspezione ossessiva, più che di una volontà eccessiva di mettersi al centro dello sguardo, e questo penso sia valido per tutti gli autoritratti nell’arte».

Grazioli: L.O.V.E. è del 2011. Al di là di ogni considerazione – che sia l’acronimo di “libertà odio vendetta eternità” l’hai detto tu o qualcun altro? –, ciò che resta enigmatico è che le quattro dita siano tagliate di netto, non piegate, non erose dal tempo.
«Credo che ogni opera assuma un significato diverso a seconda del tempo di cui diventa simbolo. Devo confessare che nel 2010 non mi sarei mai aspettato di riuscire con una sola immagine a predire il futuro politico del Bel Paese: che avremmo visto i fascisti (la mano è un saluto fascista con le dita segate) e i promotori del V-day uniti per il governo della nazione non era nemmeno annoverabile nelle mie fantasie più perverse. È la dimostrazione che l’arte va al di là del pensiero dell’artista. Spero che arrivi presto il giorno in cui altri monumenti ci rappresenteranno meglio di quello». n

Riga n. 39, editore Quodlibet, è in uscita la settimana prossima. Dedicato interamente a Maurizio Cattelan, il volume è a cura di Elio Grazioli e Bianca Trevisan