Piccole storie quotidiane, grandi fatti di cronaca. E la difficoltà di vivere con gli altri. Così l'artista trentina e Antonio Tagliarini portano in scena la società

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Il teatro di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini è una delle novità emerse nella scena italiana dell’ultimo decennio. Lei, che in teatro tutti chiamano semplicemente Daria, è una donna di straordinaria umanità, di talento assoluto, capace di convogliare anni di studio, lavoro, ricerca in un percorso di grande essenzialità e sensibilità. Un teatro solo apparentemente semplice, nudo, quotidiano: frutto anzi di passione, di ostinazione, di resistenza, di quella che un tempo si chiamava “gavetta”. Deflorian viene dal Trentino Alto Adige, ha lasciato il paese natio per diplomarsi alla scuola “Galante Garrone” e laurearsi al Dams di Bologna.

C’è chi la ricorda a Roma, sul finire degli anni Ottanta, in quel laboratorio che fu il Teatro Furio Camillo di Marcello Sambati, o con maestri del silenzio come Remondi&Caporossi, appassionata di poesia, instancabile investigatrice dell’opera di Pier Paolo Pasolini – Mario Martone la volle nel progetto “Petrolio”, nel 2004 – esploratrice di territori non consolidati.

Oggi, nell’incontro scenico con il performer e coreografo Antonio Tagliarini, e nel sodalizio artistico e umano con il filosofo e critico Attilio Scarpellini, Daria Deflorian brilla come una delle personalità più interessanti del teatro europeo. Gli spettacoli, molto amati in Francia, portano una prospettiva attualissima: quella dell’autobiografia privata che si fa racconto collettivo, dell’io che diventa noi, quasi in risposta a un bisogno diffuso, contro la parcellizzazione dell’Italia diffidente e razzista di oggi. È lo sguardo di chi, attraverso il racconto di sé, si colloca nella storia, nella politica, nella propria generazione.

Dunque, la dialettica tra l’Io e il Noi è l’oggetto di questa conversazione. Con una puntualizzazione iniziale: «Una delle radici del nostro lavoro è Pina Bausch», spiega Deflorian: «Perché con Antonio Tagliarini ci siamo incontrati nell’amore verso di lei, oggetto del nostro primo spettacolo “Rewind, un omaggio a Cafè Müller”».

Da quel momento è iniziato il nuovo viaggio teatrale di Deflorian: «Nel 2012 ci fu un’importante occasione “collettiva”, il progetto “Perdutamente”, negli spazi del teatro India di Roma. Diciotto compagnie indipendenti ebbero la possibilità di trovarsi, discutere, pensare insieme. Lì sono nati i primi venti minuti di “Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni” basato sul romanzo “L’esattore” di Petros Markaris, che un anno dopo avrebbe vinto il premio Ubu come miglior testo italiano».
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Dello sceneggiatore e giallista greco, Deflorian e Tagliarini colgono le figure nodali di quattro pensionate che si suicidano assieme, proprio per non dare pensieri in tempi di crisi: «Il confronto con Markaris, e l’incontro con un’attrice come Monica Piseddu, ha articolato domande più consapevoli. Sapevamo parlare di noi, avevamo un modo divertente di metterci a disposizione come performer e come autori: ma perché e per chi? In questa prospettiva è avvenuto l’incontro con la scrittrice Annie Ernaux. Il suo “progetto di vita” è diventato un “basso continuo”: qualcosa che ti fa capire chi vuoi essere, come essere presente. La questione della presenza è centrale in teatro: e non sei presente semplicemente perché parli di te».

Ecco quel che preme sottolineare: l’elegante e ironica Daria, con garbo e quasi con pudore, ci fa interrogare continuamente su chi siamo. Ciascuno può ritrovarsi, nella acuta leggerezza delle piccole storie di Deflorian-Tagliarini: «Abbiamo colto una nostra “verità” quando abbiamo riconosciuto le nostre fragilità e ci siamo identificati non tanto e non più nel “noi”, ma in qualcuno come noi, persone normali senza drammi esagerati, come Janina Turek che ha scritto minuziosi diari dagli anni Quaranta al Duemila, al centro dello spettacolo “Reality”. Siamo nella zona della “vita comune”: e ci accorgiamo che questa vita comune ha perso una forza di futuro, una prospettiva, uno slancio».

Allora, si può passeggiare con Daria nel quartiere Ostiense di Roma, tra i palazzoni lungo il Tevere, seguendo le suggestioni di “Io la conoscevo bene” il meraviglioso film di Pietrangeli con Stefania Sandrelli; oppure ci si può interrogare, arrovellarsi addirittura, sul senso di disagio di “Quasi niente”, spettacolo ispirato a “Deserto Rosso”.

Tendenze
Il teatro si trasferisce in acqua
5/9/2019
«È stato bello lavorare sulla figura di Monica Vitti-Giuliana del film di Michelangelo Antonioni. Proprio quando si stava consolidando il nostro successo nel teatro, avvertivamo dentro e fuori di noi la sensazione di non-adattamento alla realtà che era di Giuliana, una borghese sposata e madre, apparentemente risolta, cui manca però un senso, che si chiede “cosa ci faccio qua”? Non facciamo attivismo né nella vita né in teatro, ma siamo persone impegnate. L’impegno è nel fare attenzione allo spazio prezioso, alla responsabilità di andare in scena “con” il pubblico e non “di fronte” al pubblico.

Di fatto, è la scelta di una forma assembleare. Il pubblico poi ci riconosce di non essere pessimisti: pur parlando di temi aspri, in noi c’è amore per la vita, fiducia nell’essere umano. Viene dalla nostra natura e dalla natura del lavoro. Il creare assieme favorisce una dimensione collettiva dell’identità». Adesso arriva la scrittura del francese Éduard Louis: in “Chi ha ucciso mio padre” (edito da Bompiani) il giovanissimo autore fa nomi e cognomi degli assassini, ovvero di quei politici francesi al potere dagli anni Ottanta a oggi, che hanno annullato progressivamente ogni forma di welfare.

Per Deflorian/Tagliarini sembra un passaggio dall’impegno alla militanza. «È la militanza di Éduard! Però è bello trovare chi ha fatto il passo ulteriore: Louis ha passato la soglia sulla quale ci fermiamo. Potremmo aver scritto noi tutto il suo testo, ma non l’ultima parte, quella in cui effettivamente fa “i nomi” di chi “ha ucciso” suo padre. Ho lavorato a lungo su Pasolini e, in fondo, il famoso articolo “Io so i nomi” era la possibilità poetica di quegli anni. Quella di Louis è invece la possibilità poetica di oggi. Esce dall’attualità, entra in una dimensione tragica: vuole che quei nomi diventino come Riccardo III di Shakespeare, condivisi ovunque».

A parlare con Deflorian si svela la costellazione di scrittori e autori, che torna nel suo teatro: oltre a Pasolini, Ernaux, Louis e il suo maestro, il sociologo Didier Eribon – sulla cui opera, tra l’altro, sta lavorando Thomas Ostermaier – ecco François Jullien evocato in altri spettacoli, e ancora il filosofo Byung-Chul Han. Riferimenti importanti che lei incarna in modo forte, libero, aguzzo. Di questa costellazione fanno parte persone che non ci sono più: «È meravigliosa la non-distinzione tra vivi e morti», dice: «Sono nata in una casa senza libri, non c’era nemmeno un cinema nel mio paese: tutto è stato fantasia, immaginazione. Ma davvero questi scambi sono qualcosa di dialogico: non sei solo tu che li leggi, loro continuano a parlare. Antonioni ci ha suggerito un testo come “Buono a nulla” di Mark Fischer, che non avremmo incontrato se non avessimo scavato il mistero di Giuliana».

Nel suo percorso, Deflorian ha contribuito al lavoro di un regista come Fabrizio Arcuri o alla ricerca di una tra le più interessanti autrici-registe italiane, Lucia Calamaro. Viene da chiederle se si senta un maestro della scena, e come vive questo ruolo. «Timidamente: è un termine che mi fa arrossire. Credo però – senza nulla togliere ai maestri, che ho avuto e che riconosco – di poter apportare una dimensione di natura più “sorellesca”, forse femminile: il “mettersi a fianco”. Avere qualcuno al mio fianco o da affiancare fa scaturire le parole e, da attrice, le azioni. Ho un problema con le gerarchie e con il potere. Leggendo “Il potere” di James Hillman ho capito che esistono “i poteri” e ciascuno può scegliere quale esercitare. Non esercitarlo è malato o inutile. Mi sono riconosciuta nel potere della “cura”: quello immenso dei sacerdoti, delle sacerdotesse. È la questione del Tempio, ossia del prendersi cura di “qualcosa”, e non di sé. Credo che, nell’oggettiva mancanza di valori e di dimensioni collettive che viviamo, ci sia un “posto vuoto”, un qualcosa tra noi, per cui lavorare: quella cura può portare del bene a una progettualità comune».

E la questione femminile? La lotta, la riflessione sul ruolo della donna in contesti di potere? «Sono fortunata. Da sempre lavoro con persone belle, in condivisione: di Antonio e di Attilio si è già detto, ma sono fortunata anche nei nuovi incontri, come quello con Francesco Alberici, il giovane attore che sarà interprete del testo di Louis. E ci sono donne eccezionali al mio fianco, come Monica Piseddu o Monica Demuru. Nella quotidianità non ho conflitti. Però, il movimento #Metoo ha cambiato qualcosa dentro di me, oltre che attorno a me. Ha cambiato il fatto di non dare più per naturali situazioni che ritenevamo tali. Come quando, entrando in teatro, le persone si rivolgevano all’uomo di turno come fosse il regista o il capo: ci passavo sopra. Adesso possiamo non farlo più».

A chiederle se il teatro sia ancora specchio del Paese, Deflorian risponde in modo netto: «È proprio quello che la cultura non deve essere! Per fortuna in Italia ci sono realtà indipendenti che, pur con fatica, lavorano benissimo. Ora stiamo studiando Fellini per uno spettacolo da fare nel 2021, ed è bello vedere la forza di rappresentazione che un singolo individuo può esprimere per la collettività. C’è la possibilità di essere un’altra società dentro questa Italia».