In cerca della dea Lakshmi nell'unico monastero induista in Italia

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Nel borgo di Altare, tra il Piemonte e la Liguria, sorge il tempio fondato da italiani convertiti e dedicato alla Madre Divina, moglie di Vishnu. Oggi è meta di pellegrinaggio per migliaia di persone, immigrati compresi (Foto di Simone Cerio per L’Espresso)

Sui monti che dividono il Piemonte dalla Liguria, nel paesino di Altare, sorge l’unico monastero induista italiano, il Matha Gitananda.

Ci si arriva inerpicandosi lungo una strada di terra battuta che attraversa dei boschi di castagni fino ad arrivare a un cancello di ferro battuto, ai cui lati sono piazzati due leoni ruggenti di pietra bianca. Oltrepassato il portone si è accolti da una statua di Ganesh, il dio con la testa di elefante simbolo di prosperità e successo. Si sale poi a piedi lungo sentieri di ghiaia che delimitano dei prati dove riposano altre statue di divinità, ognuna posizionata seguendo i canoni di costruzione indù. La salita continua fino a uno spiazzo, dove sorge un roseto che i monaci residenti curano come parte della pratica spirituale. A metà della salita si trova il cuore del monastero, il tempio. È costruito nello stile dell’India del sud, da dove proviene la scuola praticata ad Altare, ed è dedicato alla Madre Divina, l’archetipo femminile del divino, veneratissima in India. L’interno è piccolo, i presenti si assiepano seduti sul pavimento e guardano verso il centro: uno stanzino con un’entrata coperta da una tenda. Lì si trova la statua della Madre Divina e la cortina viene sollevata solo durante le cerimonie, in mezzo ai canti, al rimbombo dei tamburi, al profumo dell’incenso, e solo per poco tempo, poi torna a essere celata, una rappresentazione del divino che per gli indù vive in tutte le cose ma in un modo segreto e misterioso.
 

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«È il Sancta sanctorum, il posto più sacro del tempio, la dimora della divinità. Rappresenta il luogo dove tutto ha inizio e tutto ritorna e quindi rimane chiuso perché il culto è segreto, fa parte di una tradizione iniziatica. Come si ricevono i voti di monaco si riceve anche la decodifica di un culto e di un linguaggio spirituale che permette di accostarsi alla divinità, che quindi va tenuta celata», spiega Suddhananda, una delle monache del Matha Gitananda, spiega la logica di nascondere la divinità all’interno del tempio.

Il monastero di Altare, pur essendo in tutto e per tutto un luogo di culto indù, è stato creato da un gruppo di italiani e da italiani è ancora abitato.
 

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Tra di loro vi è Swami Yogananda che fondò e si mise alla guida spirituale del Matha Gitananda dopo aver trascorso molti anni in India e aver preso i voti monastici all’Ananda Ashram di Pondicherry, nello Stato indiano del Tamil Nadu. Fu il suo maestro a Pondicherry, Swami Gitananda, ad affidargli l’incarico di tornare in Italia e fondare una comunità monastica indù.

Nel 1984 Swami Yogananda si ritirò con un gruppo di discepoli nel luogo dove poi sarebbe sorto il monastero di Altare. All’inizio la zona era isolata e spoglia e non era neppure un monastero con tutti i crismi, quanto una comunità di persone che avevano deciso di vivere praticando l’induismo, lontane dalle distrazioni della vita in società. Dopo un primo periodo «spartano e travolgente» (così lo ricorda Niragitananda, monaca presente ad Altare sin dalla fondazione) le cose iniziarono a prendere una struttura più definita: il luogo divenne un monastero a tutti gli effetti, venne costruito il tempio, cominciò l’afflusso di monaci e studiosi dall’India. La comunità si ampliò fino a contare una ventina tra monaci e novizi residenti, diventando il punto di riferimento più importante per l’induismo in Italia.

 

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Spiritualità indiana, esigenze italiane: negli anni ’90 tra gli induisti italiani si pone il problema della tutela della loro tradizione e della loro immagine nella società italiana, confusa tra i ricordi delle avventure hippie e le ondate di misticismo della new age e dei corsi yoga serali. Su iniziativa di Swami Yogananda, nel ’96 nasce l’Unione induista italiana (Uii), un’associazione che riunisce le più importanti realtà induiste del Paese e che ha nel Matha Gitananda una delle due sedi ufficiali (l’altra è a Roma).

Nel suo compito di rappresentanza degli induisti italiani l’Uii intraprende anche il lungo iter per stringere un’Intesa con lo stato italiano, per poter essere aggiunta alle altre religioni riconosciute dalla Repubblica. Nel 2000 l’Uii viene inserita tra le confessioni religiose riconosciute, mentre per l’Intesa con lo Stato bisognerà aspettare la fine del 2012, dopo più di dieci anni di trattative.
 

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Come istituzione ufficiale dell’induismo in Italia l’Uii si trova a rappresentare un universo composito. Si stima che in Italia risiedano circa 150 mila stranieri induisti e che gli italiani siano invece tra i 30 e i 40 mila. Capire quanti siano gli italiani induisti non è semplice, dato che l’induismo non ha un rito ufficiale di conversione ed è quindi difficile dire quando qualcuno vada considerato come appartenente alla religione o meno. A questo va aggiunto che di fianco all’induismo “classico” sorgono numerose altre correnti che non ne fanno parte in senso stretto ma che ne condividono molti insegnamenti, come gli Hare Krishna o i discepoli di Osho.

L’Uii si muove in questo ambiente frastagliato, fatto di stranieri che vengono da molti paesi (India, Sri Lanka, Bangladesh...) e che seguono tradizioni molto diverse tra loro e gli italiani induisti, che a volte aderiscono completamente all’induismo, a volte sono semplici simpatizzanti.
 

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Tra le iniziative per promuovere la tradizione induista e per amalgamarne gli elementi la più importante è l’organizzazione del Diwali, la festa della luce, la festività ufficiale dell’induismo in Italia secondo l’intesa con lo Stato. Il Diwali viene spesso paragonato al Natale: è la festa più importante della comunità, prevede lo scambio di doni e celebra la vittoria della luce sulle tenebre, esattamente come il Natale coincide con l’allungarsi delle giornate con l’inizio dell’inverno.

In qualità di confessione riconosciuta l’Uii ha poi accesso all’8 per mille che destina a diverse attività socialmente utili. In teoria con questi fondi si potrebbe anche sostenere l’attività edilizia dei luoghi di culto indù, che in Italia spesso sono ospitati da strutture di fortuna come garage e capannoni dismessi. Non sempre è facile però trovare ascolto presso le amministrazioni locali, che si sono spesso dimostrate ostili. La monaca Suddhananda racconta che «in teoria ci sarebbe diritto di edificare luoghi di culto o anche solo di cambiare la destinazione d’uso di edifici già esistenti, ma ci sono leggi che lo rendono difficile, come la legge anti moschee della Lombardia». «Anche le religioni che hanno un’intesa con lo Stato», prosegue, «non hanno automaticamente la possibilità di fare anche un semplice cambio d’uso, non necessariamente di edificare».
 

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Come confessione riconosciuta l’Uii può poi officiare matrimoni religiosi validi civilmente e anche ad Altare se ne sono celebrati alcuni. I ministri di culto induisti dirigono le nozze secondo le regole indù, usando il sanscrito come lingua cerimoniale e rispettando i rituali classici: gli sposi si scambiano reciprocamente una ghirlanda e poi, mano nella mano, compiono una danza di sette passi, a ognuno dei quali si scambiano una promessa per la loro futura vita coniugale, tutto rigorosamente in sanscrito. Terminata la cerimonia religiosa il ministro del culto passa all’italiano e redige gli atti di matrimonio prescritti dalla legge italiana.

A sposarsi non sono solo coppie di indiani che vivono in Italia ma anche coppie di cittadinanza mista o di italiani che scelgono il rituale indù per le loro nozze. Al Matha Gitananda l’ultimo matrimonio tra italiani si è tenuto all’inizio di luglio di quest’anno.

Nell’auditorium del monastero c’è una statua di Gandhi. Rappresenta il Mahatma in piedi, coperto da una stola e con gli occhiali tondi a cavallo del naso. La statua è in mezzo a molte altre, ma è la sola a rappresentare un uomo, tutte le altre sono immagini di divinità.
 

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È un sabato d’estate e nell’auditorium si tiene un incontro singolare, considerando che siamo in un monastero: un seminario sulla cura della Terra, la natura, le persone. Anche gli oratori non sono quelli che ci si aspetterebbe. Ci sono molti monaci dietro al tavolo delle conferenze: il fondatore del monastero, Swami Yogananda, un monaco in visita da un monastero di Pondicherry, in India; un’altra monaca, anche lei del Matha Gitananda. Ma ci sono anche un professore di sociologia dell’Università della California, una degli storici leader dei verdi italiani, Grazia Francescato, un agronomo che cura dei progetti di agro-ecologia nelle carceri.

Le citazioni di inni sacri si incrociano con le statistiche fatte nelle università americane ma tutti stanno parlando della stessa cosa, il bisogno di cambiare il nostro modo di vivere per difendere la Terra. Per capire cosa sia l’induismo in Italia bisogna partire da eventi come questo, dove la tradizione spirituale indiana tocca le esigenze sociali che sono alla base dell’etica occidentale. La statua di Gandhi è il simbolo ideale di questo contatto. Lo statista indiano aveva studiato legge a Londra e una volta tornato in patria era riuscito a trarre dalla tradizione religiosa della sua terra gli strumenti di lotta politica contro i dominatori inglesi, trovando un punto di unione tra esigenze sociali, etiche e spirituali.

Finita la conferenza due monaci sollevano la statua di Gandhi e la trasportano con cura nel giardino del monastero. La piazzano su un palchetto di legno, di fronte a delle file di sedie ordinate, riparate dal sole da un telo colorato teso tra i rami degli alberi. La platea si è lentamente riempita in attesa dell’arrivo dell’ospite d’onore: Reenat Sandhu, l’ambasciatrice indiana a Roma.

Una volta arrivata, Sandhu si siede al posto d’onore in prima fila, riparata dal sole da un ombrellone sistemato apposta per lei. Accanto a lei c’è Swami Yogananda, con la lunga barba bianca e i capelli raccolti in una crocchia. Tutt’attorno a loro i monaci del monastero: i novizi vestiti di bianco, gli anziani di arancione. Le altre sedie si riempiono del variopinto miscuglio che costituisce l’induismo italiano oggi: indiani in Italia da molti anni, italiani incuriositi dall’evento o habitué del monastero, monaci e sacerdoti in visita dall’India.

L’ambasciatrice è arrivata ad Altare portando in dono delle piantine di albero della canfora, da regalare al monastero e ad altre realtà induiste che partecipano alla giornata. Alberi da piantare come segno della volontà di preservare il mondo in cui viviamo.

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