Romanzi, saggi, graphic novel. Vicende inedite nelle pieghe della Storia, protagonisti le vittime e i carnefici. Perché ricordare è l'unico antidoto

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«Ho avuto la sensazione che questa esperienza mi avesse dotato di uno strano potere di parola. Avevo l’impressione precisa di essere tornato allo scopo di raccontare». La memoria della Shoah come missione imprescindibile, così Primo Levi in una intervista televisiva nel 1985, due anni prima di togliersi la vita. Il dovere di trasmettere i propri ricordi nonostante la paura di non essere creduti, malgrado l’angoscia di tornare nell’abisso. Alcuni libri in uscita in questi giorni narrano l’inenarrabile - attingendo in molti casi a vicende vere, oppure spingendosi lungo i sentieri dell’invenzione - si ispirano a fatti realmente accaduti o li trasfigurano per renderli universali.

L’amore, ad esempio, disegna traiettorie imprevedibili. Come per “Ultima fermata Auschwitz” (Rizzoli, traduzione di Dafna Fiano), in cui Eddy De Wind, medico ebreo olandese deportato ad Auschwitz insieme a Friedel, conosciuta in un campo di transito, scrive le proprie memorie pochi giorni dopo la liberazione del lager nazista nella Polonia occupata. Mentre l’Armata Rossa si avvicina, i nazisti portano con sé gran parte dei prigionieri rimasti verso i lager tedeschi. Per sfuggire a questo destino, de Wind si nasconde in una delle baracche, sotto un cumulo di vestiti; Friedel, sua moglie, non ha il coraggio di imitarlo. E così il medico annota su un taccuino la propria esperienza nel campo, dove lui e Friedel erano riusciti a scambiarsi di nascosto brevi lettere, si erano stretti in abbracci fugaci e illegali, resistendo fino all’ultimo.

Un’altra storia d’amore, coraggio e sacrificio - e di perdita - dà forma a “Emarginati” (Giuntina, traduzione di Vittoria Dentella) di Susan M. Papp, produttrice, scrittrice e regista canadese: Hedy Weisz, ebrea, e Tibor Schroeder, cristiano, si innamorano, in un mondo dove è proibito il matrimonio tra cristiani ed ebrei. Un’unione impossibile, una perdita dettata dalla follia della persecuzione. La famiglia Weisz sarà trasferita nel ghetto di Nagyszollos e da lì deportata ad Auschwitz, mentre la famiglia di Tibor verrà sradicata dalla terra d’origine e, per non soccombere, costretta a disperdersi.

È ricorrente il tema della missione della memoria. Deportata a 19 anni, Ginette Kolinka ha scritto con la giornalista Marion Ruggeri “Ritorno a Birkenau” (Ponte alle Grazie, traduzione di Francesco Bruno), che arriva in Italia dopo il successo in Francia. A 95 anni, fra gli ultimi sopravvissuti ai campi di concentramento, Kolinka racconta dopo mezzo secolo di silenzio - «non ho parlato per non dare fastidio», ha dichiarato - la fame, la violenza, l’odio, la morte sempre presente. Deportata insieme al padre, al fratello minore e al nipote, fu l’unica della famiglia a tornare a Parigi. Negli ultimi vent’anni Ginette ha visitato decine di scuole e accompagnato tanti ragazzi ad Auschwitz-Birkenau.

Ancora una volta la cronaca dell’orrore dà forma al racconto, anche se i nomi dei personaggi sono inventati. Come nel romanzo “Il maestro di Auschwitz” (Newton Compton Editori, traduzione di Laura Miccoli), in cui Otto B Kraus (1921-2000), praghese, deportato insieme alla famiglia, esplora la vicenda di Alex Ehren, uno dei prigionieri di Auschwitz-Birkenau, che decide di dare lezione di nascosto ai bambini ebrei raccolti nel famigerato Blocco 31. Il romanzo è ispirato alla storia autentica di Otto B Kraus, che durante la prigionia nel campo di concentramento osò sfidare le regole imposte dai nazisti.

Nei risvolti della storia la realtà in molti casi supera tragicamente la fantasia. Personaggi come Jan Karski, esponente del principale gruppo polacco di resistenza al nazismo, incaricato di far conoscere all’estero l’esistenza dei campi di sterminio. Vicende quasi incredibili lo portarono più volte a cadere nelle mani dei tedeschi, ma riuscì sempre a scamparla. Repubblica presenta “Jan Karski. L’uomo che scoprì l’Olocausto” (uscita 24 gennaio) di Marco Rizzo e Lelio Bonaccorso, graphic novel tragica e commovente che racconta le vicissitudini dell’uomo che nel 1943 incontrò il ministro degli Esteri britannico e il presidente americano, e a loro riferì gli orrori di cui era stato testimone. Non fu creduto: la priorità era sconfiggere la Germania.

E ancora, in “La ragazza col cappotto rosso” (Piemme) Nicoletta Sipos parte da una foto con due sconosciuti ritrovata in una scatola per biscotti per dare inizio al viaggio di Nives Schwartz alla scoperta dei segreti celati dalla madre Sara. Dopo la morte della donna, Nives entra in un mondo di verità taciute per più di mezzo secolo. Una donna di nome Bekka Kis aveva scritto, nel 1965, una lunga lettera a sua madre, confidandole le proprie paure, lo strazio di essere sopravvissuta alla Shoah. E, forse, di aver causato la morte di tanti. Da quel momento, per Nives inizia un’indagine per ritrovare Bekka Kis, nei segreti più intimi della sua famiglia.

Si muove tra realtà e finzione anche “La bambina e il nazista” (Mondadori) di Franco Forte e Scilla Bonfiglioli, partiti da fatti di cronaca e dai racconti dei sopravvissuti per costruire la storia di Hans Heigel, ufficiale delle SS in servizio in un campo di sterminio che decide di sacrificare la sua vita per salvare quella di una piccola ebrea in cui ritrova lo sguardo dell’amata figlia scomparsa e alla quale somiglia come una goccia d’acqua. Il personaggio escogiterà sempre nuovi stratagemmi pur di strappare una prigioniera a un destino già segnato.

A vent’anni dall’introduzione in Italia del Giorno della memoria, infine, è interessante leggere, o rileggere, gli articoli apparsi sul Sole 24 Ore a firma di Giulio Busi nella sua rubrica Giudaica: “La pietra nera del ricordo” (Il Sole 24 Ore), che raccoglie una sessantina di interventi, e poi altri testi tra cui la ricostruzione della vicenda di Liliana Segre da parte di Silvana Greco.«Vent’anni fa ho scelto per il mio primo intervento una citazione inconsueta, che avevo trovato in un vecchio testo di mistica ebraica», scrive Busi: «Mi affascinava il richiamo alla «pietra del buio e della tenebra», e il giudizio, così pro­fondo e lapidario, su cosa sia la condanna più amara per un uomo. Ancor più della sofferenza e della morte, la vera fine, l’ultima catastrofe è l’assenza di ricordo».