Franca Valeri: cent'anni di vita in un solo racconto
L’infanzia. I genitori. I nonni. L'amore per i gatti e l'avversione per le bambole. E poi le leggi razziali. L’odio per il fascismo. La gioia per la morte di Mussolini. La carriera teatrale. Tutto nelle pagine della "Sedia del nonno”, ultimo scritto della grande attrice scomparsa due mesi fa
di Franca Valeri
8 ottobre 2020
c1fc417ea331ca53e02074c76732fa8d-jpgIl ricordo ha la valenza di una fotografia. Vedo la prima casa che ho abitato a Milano. Incredibile che me la ricordi così bene, ricordo tutto o quasi di quella casa, persino i pavimenti, le scale. E ricordo che sono in terrazzo, c’è una persona che passeggia su quello di fronte.
È bella quella terrazza, proprio di fronte a noi. E si sentono le voci di chi ci sta. So chi sono, c’è una bambina della mia età che si chiama Ester. Non è stata a lungo mia amica, ha lasciato presto quella casa perché alla sua mamma non piaceva. Peccato perché era grande e comoda. Anche il nostro terrazzo è bello, contornato di pietre. Ma mi fa impressione stare lì, la mamma è vestita di nero e sento papà che le dice:
- «Cecilia, non importa che ti vesta di nero».
- «Ma tu ci tenevi molto» - risponde lei.
- «Ma non è d’obbligo il nero».
Il ricordo è anche un magnetofono curioso che si accende e si spegne da solo. Mentre rivedo quel terrazzo sento una voce che dice:
- «Quando il nonno è morto la Franca aveva tre anni».
Quindi si parlava di me. E del nonno.
Quando sento quella frase non so cosa voglia dire essere morto, certo ho capito che non l’avrei visto più. Come potevo avere solo tre anni, se mi sembra di vederlo ancora così bene?
È un uomo piccolo, elegante e bello come il papà. Sì, lo vedo con chiarezza sul quel terrazzo, ha in mano un pacchetto rotondo. È certamente una torta che, tanto per cambiare, non mi piaceva. Non sono una grande amante dei dolci. A mio fratello Giulio invece sì, gli piacciono molto. Valeri1-jpg Spesso non capivo che cosa si dicessero i miei genitori, certo cose molto importanti per loro. E quando entrava la balia, smettevano di parlare.
Avevamo una balia toscana di cui ricordo solo il cognome Sturlini. Quando siamo diventati abbastanza grandi, se n’è andata e non abbiamo più avuto sue notizie. Giulio le era molto affezionato, e lei a lui. Mio fratello da piccolo era piuttosto bello, evidentemente più di me. Era tutto riccio di capelli e quando la nonna Francesca veniva, quasi a cadenza giornaliera, gli metteva la mano fra i capelli e gli portava dei regali. Anche a me portava dei regali, ma si trattava di bambole di stoffa che finivano subito in un cassone in anticamera.
- «Perché le butti Franca»?
- «Perché sono brutte, non mi piacciono».
Era chiaro che la nonna preferisse Giulio a me, anche se la mamma credeva il contrario. Ma è così. L’incredibile ragione di questa preferenza è che era il maschio.
Il nonno ci ha lasciato tra tante cose anche una sedia. Una bella poltroncina di fine settecento che adesso sta nella mia casa al Fleming.
Poco tempo fa arriva un signore modesto che dice: - «Sono un restauratore».
E guarda quella sedia rovinata dai gatti.
Ho dimenticato di dire che avevamo due gatti molto importanti per noi. Erano soriani tutti e due. La mamma li curava insieme alla donna, che non era più la balia ma era già Clotilde, la tuttofare che li ha trovati nei dintorni di casa. Ci piacevano molto, quei gatti, quando sono arrivati. Avevo paura che andassero fuori sul terrazzo, ma si sono accoccolati su quella sedia e ci stavano benissimo. Uno era tigrato e l’altra somigliava a una siamese, beige con due splendidi occhi azzurri.
Non so come ma temevo che prima o poi sarebbe successo un guaio. E infatti una sera, papà era già al letto, la gatta è caduta dalla finestra ed è finita nel giardino di sotto. Il papà ha lanciato un grido e si è precipitato al balcone esclamando: - «Eccola, la vedo, è viva! Si muove! ».
Ed è corso al pianterreno per riprenderla. Poi ha gridato da lì sotto: - «È viva! Ma non cammina!».
Mio padre ci ha portato su Mignina che sembrava colpita gravemente. L’ha appoggiata sulla sedia del nonno, e solo dopo un po’ la gatta ha cominciato a muoversi, coccolata dal suo compagno. Si chiamavano Mingo e Mignina. La mamma non ha avuto molta fantasia nella scelta dei loro nomi.
Sul mobile della stanza da pranzo c’era un panettone e i gatti buttavano giù le briciole per mangiarle. La mamma diceva: - «Su ragazzi, non potete mangiarvi tutto il panettone».
Effettivamente non ci faceva piacere ma intanto il panettone a poco a poco finiva e la gatta guariva, grazie alle cure di mio padre che si alzava ogni notte per darle la coramina. E noi eravamo contentissimi. Mignina era ben guarita e miagolava tutto il giorno per la felicità di Clotilde che badava a cibare i gatti. Non posso non ricordarmi di lei, quando andavo con la mamma a trovare i nonni al cimitero monumentale, vedevo sempre il nome Clotilde sulla lapide. La mamma la rimpiangeva molto. (...).
Da allora ho sempre avuto gatti e cani che hanno usato, grattato e graffiato quella bella sedia antica. Il restauratore è dispiaciuto per quanto l’hanno deturpata. Poi rivolge lo sguardo a due bei tavoli rotondi che piacciono molto anche a me. E lo colpisce una vetrina bianca e oro.
Bisogna chiarire subito la storia di questa vetrina. Quando lasciamo non so se la seconda o la terza casa, c’è in mezzo la morte del nonno e poi anche della nonna. Mio padre è l’erede maschio e potrebbe scegliere che cosa tenersi, ma i tre figli di zia Maria, che era la zia bella, vogliono prendersi una vetrina raffinata, piuttosto piccola, bianca e oro. L’esperto che guida mio padre gli spiega che si tratta d’oro zecchino. I cugini la vogliono a tutti i costi e papà cede subito, non ama discutere ed è molto generoso. La mamma invece si arrabbia come di dovere, ma non c’è niente da fare: - «Non insistere, Cecilia, sono molto prepotenti, non la spunterai mai. Ne faremo fare un’altra».
Troviamo un artigiano che la riproduce tale e quale, compreso il dettaglio dell’oro zecchino. Così è stato e adesso campeggia in salotto a casa mia, è bellissima. È lì da anni, da quando abito qui. Contiene gli oggetti di pregio che appartenevano al nonno. Il restauratore dice che aveva un gran buon gusto. E amava lo stile impero, forse glielo suggeriva la sua cultura.
Il nonno era un vero cultore di oggetti antichi, e tutti di valore. Compreso un delizioso servizio da tè giapponese al quale la mamma tiene molto perché è un regalo del suocero, che le vuole bene perché pensa che suo figlio non avrebbe potuto cascare meglio che con lei.
Ho già scritto della coppia perfetta che erano i miei genitori, non ricordo litigi, magari qualche borbottio quando papà tornava a casa tardi e noi avevamo già mangiato da ore. La mamma si alzava e diceva: -«Matilde, non preoccuparti. Riscaldo io». Ricordo queste voci familiari. Mi piace lasciare un ricordo del nostro clima di casa, adesso che non è facile trovare coppie che non si sognerebbero mai di rompersi. Purtroppo la mamma e il papà sono al cimitero monumentale di Milano e a me non resta che ricordarli.
Il nonno, come ho detto, aveva una faccia bellissima e anche se era più piccolo di papà, si somigliavano molto.
Loro, nonna e nonno Norsa, erano già scomparsi alla soglia delle leggi razziali, non so come le avrebbero prese. Non posso dire che fossero molto legati alla religione ebraica. La mamma diceva spesso: -«Ormai sono tutti atei, anche i cattolici». Non avevamo amici che si preoccupassero degli orari della messa, o delle connesse cerimonie. Purtroppo quello che diceva la mamma era vero, a cominciare da lei. Una volta ho trovato in un libricino una preghiera ebraica e l’ho imparata a memoria. Avevo pochi anni, diciamo dieci e ancora me la ricordo. Forse avrei amato potermene servire, non l’ho mai dimenticata: «Sh’ma Yisrael Adonai Elohenu Adonai Echad». Mi mettevo davanti ad un termosifone e recitavo la preghiera. Qualche volta lo faccio ancora adesso. Ci sono delle cose della vita sulle quali non sai decidere. Perché ho deciso di ricordare il nonno in questo racconto? Forse perché ho capito che è una figura importante del mio passato. È stata fatta una mostra sulle famiglie importanti nella quale compariva anche la nostra, anche se era scampata miracolosamente alle leggi razziali e allo sterminio. A questo proposito voglio ricordare come e chi ci ha aiutato generosamente a scampare il pericolo.
Ricordo un impiegato all’anagrafe, ha in mano dei documenti aggiornati con il cognome cambiato. Era intrepido ad addossarsi questa responsabilità e portare a termine l’operazione. Si chiamava Portaluppi. È strano come ci si ricordi tutto.
Papà va in Svizzera all’inizio della guerra con un lasciapassare e mio fratello Giulio espatria a piedi con l’aiuto di una guida trovata da alcuni amici che abitano proprio al confine con l’Italia. Eravamo molto eccitati all’idea che Giulio partisse a piedi. Ricordo che sapevo usare a malapena ago e filo ma ho cucito un anello con un brillante nell’imbottitura della manica di una giacca. La mamma ed io restiamo a Milano, ma ci rendiamo conto che è pericoloso rimanere in quella casa. E ci viene in soccorso una mia compagna di scuola di nome Semenza. La sua famiglia ha una casa in Brianza, molto bella. Sembra una casa antica, con un grande cortile dove scorazzano due magnifici pastori maremmani che si chiamano Simba e Peter. Erano bellissimi e molto affettuosi. Io non avevo ancora un cane mio e lo desideravo molto. Siamo rimaste in questa casa ospitale completamente nascoste, la mamma ed io. Era bello stare lì con quegli amici in Brianza, terra bellissima, e il paese aveva un curioso nome, Santa Maria Hoè. Purtroppo un fatto tragico ci ha costrette a lasciarla. È morta all’improvviso la figlia maggiore della nostra ospite, che era sposata e aveva un bambino. Quella bellissima ragazza si chiamava Nora, non la dimenticherò mai. È stato un tale dolore che abbiamo dovuto andarcene. Siamo partite con il rincrescimento di lasciare i nostri amici distrutti da quel triste evento.
Ma subito altri amici si sono offerti di ospitarci, sempre sul lago Maggiore, più vicino a Lecco, in altro paese dal nome curioso, Bologna di Perledo. Questa seconda casa era della famiglia di Paolo Buzzi, uno scrittore e poeta che aveva una caratteristica attraente, suonava benissimo il pianoforte. (...) C’era anche un fratello minore di Paolo un po’ demente, che lui amava molto e non si risparmiava a difendere la sua intelligenza. Aveva scritto un libro intitolato “Gigì di purità”, e quando l’ho letto mi ha ispirato molta tenerezza. Questo fratello ci amava tutti, era felice che fossimo in quella casa.
La sera, Paolo che tutti chiamavano Paolino come un gatto che ho avuto poi, suonava al pianoforte musica di opere liriche che io adoravo e ho imparato tutte da lui. E leggeva a voce alta i romanzi celebri di Dostoevskij o “I Promessi Sposi”, che avrei dovuto studiare a scuola. Era una vita piacevole con questi amici cari, la loro cultura, la loro eleganza. Una mattina Maria si affaccia alla porta molto composta dicendo: - «Non spaventatevi, ci sono qui delle guardie». Più tardi ci tranquillizza: - «Sono andati via».
Solo che con sé hanno portato via una famiglia ebrea. Era pericoloso restare anche lì.
Con la fiducia che ci sarebbe venuto in aiuto qualcuno, la mamma telefona al ragioniere che si occupava degli affari di papà prima della guerra e si chiamava Galbusera. Da ragazzi il Giulio ed io schernivamo il suo cognome. Il Galbusera ci ha subito trovato un piccolo appartamento a Milano, in una casa bombardata, e ci siamo rimaste alcuni mesi, in fondo tranquilli perché era in un quartiere non troppo popolare, ma quasi. Alla fine la città sembrava più sicura di un paese.
Siamo rimaste lì fino alla fine della guerra. Io covando il mio odio per il fascismo e la mamma con il pensiero fisso ai nostri due in Svizzera, dei quali siamo riuscite ad avere solo poche notizie grazie a un altro conoscente, il calzolaio che faceva le scarpe eleganti di papà e aveva una moglie inglese. Si è offerta lei di farci avere una lettera da loro. Così abbiamo saputo come si sentivano, e abbiamo mandato una breve risposta.
Non è stata una lunga corrispondenza.
Quando abbiamo saputo che Mussolini è stato arrestato e poi ammazzato, non vi dico quanto sono stata felice. Sapevo che non era un sentimento umanitario ma ho lasciato a casa mia madre terrorizzata e mi sono avviata con una folla verso Piazzale Loreto, dove era appeso chi ci aveva reso la vita infelice per tanti anni. Eravamo ancora in quella casa quando una mattina sentiamo i passi di qualcuno che ci chiama. Era Giulio, che è venuto dalla Svizzera a piedi, prima di papà che aveva difficoltà a ottenere il permesso. Giulio era scappato dal rifugio in cui era ancora trattenuto. La mamma era felice, aggrappata al suo bambinone che finalmente rivedeva, e aspettavamo di ritrovare papà. Eravamo sconvolte dalla gioia, la mamma in lacrime e piangevo anch’io, che ho tenuto duro per tutta la guerra perché sapevo che sarebbe finita come desideravo, come ho creduto per cinque anni attaccandomi a tutto, anche alla piccola preghiera ebraica e alle preghiere che mi ha insegnato la mia madrina di battesimo. Già, perché dopo le leggi razziali sono stata battezzata, la mamma era cattolica. Ovviamente per prudenza, anche se anche quei riti si sarebbero rivelati inutili, non avrebbero impedito quegli arresti mostruosi. Era solo questione di fortuna sfuggire alla morte. Questa è la storia della nostra guerra. L’importante è che fosse finita. Mi dava quella certezza il corpo appeso di chi è stato il responsabile della nostra disgrazia. È difficile dire i sentimenti che sono stati la guida della nostra resistenza. A poco a poco, è venuta la pace. Molto a poco a poco. Dopo un simile trambusto abbiamo ritrovato la vita, per me in particolare che ho iniziato la carriera teatrale. Che è stata lunga e fortunata (...). @2020 Società Editrice Milanese
“La sedia del nonno”, il racconto inedito che qui pubblichiamo quasi integralmente, è contenuto nel libro “Franca. Un’incompresa di successo” di Patrizia Zappa Mulas, in arrivo in libreria il 22 ottobre, edito da SEM (pp. 160, € 15).