Cultura e fede

Mario Botta: «L'architettura è la mia religione»

di Emanuele Coen   8 ottobre 2020

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Ha appena finito di costruire una basilica in Corea del Sud. E confessa: «Se fosse per me, costruirei solo chiese». L'incontro a Pesaro con il grande progettista svizzero, nello studio dello scultore Giuliano Vangi, che ha collaborato con lui. Per ragionare sugli spazi del sacro, il restauro di Notre Dame, i luoghi di culto come elementi di pace e di conflitto

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«La costruzione di un luogo di culto non può essere indifferente rispetto al contesto. Deve testimoniare attitudini, funzioni, messaggi e speranze della vita quotidiana. E, al tempo stesso, divenire memoria storica, sintetizzare valori di cui il territorio e gli uomini si nutrono». Scandisce lentamente le parole Mario Botta, mentre illustra il suo nuovo progetto, la basilica di Nostra Signora del Rosario a Namyang, in Corea del Sud, non lontano da Seul, in un luogo-simbolo dell’eccidio di migliaia di cattolici intorno alla metà dell’Ottocento, ai tempi della dinastia Joseon.

Il grande architetto svizzero guarda orgoglioso ed emozionato il plastico in legno davanti a sé, che riproduce in miniatura la chiesa con quasi duemila posti aperta sulla valle sacra, due grandi absidi cilindriche alte quaranta metri. Quando la cattedrale verrà ultimata, dopo il rallentamento dovuto alla pandemia, ospiterà sopra l’altare l’imponente crocefisso e i due grandi disegni dello scultore Giuliano Vangi, sospesi a tre metri d’altezza, che raffigurano due momenti emblematici della vita di Gesù: l’Annunciazione e l’Ultima cena. Tra qualche giorno il Cristo ligneo e i disegni, serigrafati su enormi lastre di cristallo, lasceranno per sempre l’Italia. L’incontro nello studio dell’artista, a Pesaro, all’indomani dell’uscita del libro “Il gesto sacro” (Electa), a cura di Sergio Massironi e Beatrice Basile, offre l’occasione per ragionare con Botta sui luoghi di culto, tema a lui sempre più caro negli ultimi anni.

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Architetto, nella sua carriera ha progettato fabbriche, banche, case, musei come il Mart di Rovereto e il MoMa di San Francisco. Ma anche sinagoghe, moschee e chiese come la cattedrale di Évry, in Francia, e ora la basilica di Namyang vicino a Seul. Come sceglie i suoi progetti?
«L’architetto non sceglie cosa fare, se fosse per me costruirei solo edifici sacri. È un tema che ho scoperto tardi, nel 1986, quando mi proposero di ricostruire la chiesetta seicentesca di Mogno, in Canton Ticino, distrutta da una valanga che aveva cancellato 400 anni di storia. Il fatto mi commosse molto, da allora ho trovato nel sacro le ragioni dell’architettura».

Costruire un museo non è altrettanto appassionante?
«Non mancano temi civili e profani entusiasmanti, ma in gran parte hanno perso di fascino. Le città si assomigliano, si costruisce lo stesso edificio in Norvegia e in Egitto. L’architettura, forse, è la disciplina che ha pagato il prezzo più alto della globalizzazione, ha assecondato troppo le leggi del mercato. Gli architetti dovrebbero seguire il paradigma dei grandi artisti, che hanno resistito di più: Anselm Kiefer, ad esempio, ha fatto proprie le contraddizioni dell’esistenza e le ha trasferite nelle sue opere. Nel campo dell’architettura, invece, gli ultimi maestri sono stati i miei: Le Corbusier, Louis Kahn, Carlo Scarpa. La nuova generazione si è ubriacata nella società dei consumi: scelgono materiali identici, fanno la banca che somiglia alla fabbrica, la fabbrica che sembra una chiesa, la chiesa che somiglia all’edificio residenziale. Amo lo spazio del sacro perché mantiene ancora forti gli elementi fondanti della disciplina: il senso di gravità come radicamento alla terra, la luce come generatrice dello spazio, la soglia come elemento di transizione, la relazione tra finito e infinito. Sono convinto che, alla fine, ciascuno faccia ciò che gli è più congeniale».

Che rapporto ha con il sacro, è credente?
«È molto difficile rispondere a questa domanda, credo che ognuno di noi abbia una propria fede. La cultura europea, cristiana e occidentale, mi ha formato ma non sono un buon cristiano, anche se mi piacerebbe esserlo perché l’insegnamento del Vangelo è straordinario. Non riesco a vedermi come fedele se non nella dedizione e nella fiducia nell’architettura».

Che differenza c’è tra spiritualità e religiosità?
«Sono due concetti distinti. Si può essere spirituali sul bordo di un fiume o in mezzo al bosco, una vaga forma di spiritualità è insita nella natura umana. La religiosità, invece, ha a che fare con il comportamento sociale, le relazioni interpersonali, la ritualità. La forza dello spazio sacro risiede nel suo significato collettivo, nella condivisione da parte del popolo dei fedeli. Le orazioni, i canti, sono un modo per sentirsi parte di una civiltà. La mia ricerca però si concentra sullo spazio, che ha una religiosità propria molto forte».

Nelle metropoli contemporanee lo spazio del sacro è stato sostanzialmente rimosso dal tessuto urbano. È un fatto reversibile?
«Per la generazione precedente alla mia lo spazio del sacro dettava il ritmo della vita. Se non andava in chiesa, mia madre perdeva l’equilibrio. È vero, nelle metropoli contemporanee lo spazio del sacro è stato rimosso, ed è altrettanto vero che a volte questo fenomeno spinge alla ricerca di forme espressive esasperate, caricaturali, che però danno il segno della sua necessità. In Corea del Sud, ad esempio, in una società fortemente secolarizzata, una volta ho visto una cappella su cinque livelli diversi, fuori misura».

Durante il lockdown i luoghi di culto sono rimasti chiusi. In Italia, la scorsa Pasqua, l’eventuale riapertura delle chiese è diventato oggetto di dibattito politico. Oggi Israele è di nuovo in chiusura totale e le sinagoghe sono interdette ai fedeli, tra mille polemiche. Le religioni incarnano l’idea di assembramento per loro natura, con il Covid-19 cambierà la progettazione degli spazi sacri?
«Il Covid ci dice che per essere sani dovremmo essere soli. Per vivere, invece, abbiamo bisogno dell’altro. Come in tutte le epoche, in tutti gli stili architettonici dal romanico alle avanguardie artistiche del Novecento, alcuni fatti storici hanno rovesciato il nostro modo di vedere le cose. Oggi, nel progettare definirei meno le funzioni e più la qualità. Per millenni l’architettura ha definito gli spazi con un ruolo specifico: una sala, una cucina, un teatro, una camera. Ora l’architettura deve possedere una qualità propria, al di là della finalità. Mi spiego meglio: il Pantheon non era nato per la funzione che ha oggi, ma ne riconosciamo il miracolo per il buco che guarda verso il cielo. Era la tomba di Adriano, poi è diventato un mercato, dopo ancora una chiesa».

L’Italia vanta il più vasto patrimonio d’arte sacra al mondo, in molti casi indegnamente trascurato. Non sarebbe opportuno investire nella conservazione invece di costruire?
«Allora bisognerebbe ammazzare tutti gli uomini nuovi e non fare bambini. Il patrimonio è un dono che abbiamo ricevuto, certo, ma il punto centrale è un altro: la costruzione della memoria. Non edifichiamo per il futuro, non conosco l’avvenire ma so cos’è il grande passato: mi ha dato esempi straordinari di bellezza, funzionalità, flessibilità, quindi di intelligenza. Perché tutti vogliono andare a Venezia? Per incontrare se stessi: la civiltà occidentale, la storia dell’umanità di cui facciamo parte».

Qualche tempo fa in Francia si è aperto un dibattito sui criteri di restauro della Cattedrale di Notre-Dame, semidistrutta da un incendio il 15 aprile 2019. Alla fine si è deciso di ricostruire tutto com’era prima. Che ne pensa?
«Gli edifici, come gli uomini, devono poter vivere e morire. Anche le piramidi d’Egitto, che sembrano eterne, un giorno periranno. Questo attaccamento morboso al passato fa male, l’antico ha bisogno del contemporaneo. Quando mi hanno chiamato per la chiesa di Mogno, distrutta dalla valanga, non ho pensato neanche un istante di ricostruirla esattamente com’era, una chiesa del Seicento, ma dov’era sì».

Per Notre-Dame avrebbe dato spazio all’architettura contemporanea, come auspicato dal presidente francese Emmanuel Macron?
«Anzitutto non l’avrei lasciata bruciare. Siamo andati sulla Luna e non siamo capaci di installare un sistema antincendio efficace? In ogni caso, riprodurre il passato vuol dire fare il falso. Forse ha avuto senso per Varsavia, rasa al suolo durante la Seconda guerra mondiale. E poi il restauro conservativo non esiste, implica sempre una trasformazione, con nuove tecnologie e nuovi materiali. Intorno al tema c’è un equivoco di fondo».

Si è mai pentito di un progetto realizzato?
«Sì, sempre. Ogni volta che un lavoro entra nella fase di cantiere vorrei cambiarlo, magari a torto, non sono mai soddisfatto. La spinta all’azione è più forte della cosa ben fatta».

Nel corso della sua carriera ha disegnato chiese, sinagoghe, moschee. C’è un filo rosso che le collega?
«Ogni religione monoteista porta con sé una certa idea di spazio. La sinagoga, ad esempio, è il luogo della lettura della Torah, dei versetti della Bibbia, non ha nulla di sacro in sé. Diversa è la chiesa cristiana: sull’altare avviene la trasformazione del pane e del vino nel corpo di Cristo. Quanto alla moschea l’orientamento verso la Mecca resta l’aspetto più importante dal punto di vista spaziale, ma per me resta ancora misterioso cosa accade davvero all’interno. Per fare il mio mestiere ci vuole anche un po’ di ignoranza, non occorre sapere tutto ma avere delle intuizioni».

Spesso i luoghi di culto sono simboli di pace e al tempo stesso di conflitto. Non è paradossale?
«Dipende dagli uomini, non dagli architetti».