Anniversari

Che sia Germi o Starnone, le scene da un divorzio non finiscono mai

di Paolo Di Paolo   30 novembre 2020

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Atto di libertà ma anche corpo a corpo con il fallimento. Da Ingmar Bergman a "Kramer contro Kramer", da Grazia Deledda a Diego De Silva, viaggio in un genere cinematografico e letterario inesauribile

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I documenti per il divorzio, plumbei. I pomeriggi difficili. I litigi ulteriori. La tentazione di tornare indietro. Il passato che è come aria viziata, soffoca. “Marriage Story” di Noah Baumbach è fra i più recenti, e più riusciti, esempi di quello che a tutti gli effetti va considerato un genere cinematografico. E, naturalmente, anche letterario. A chi gli ha sottoposto il paragone con “Kramer contro Kramer”, il regista statunitense ha spiegato che – fra i mille divorzi raccontati sul grande schermo, fra le mille angolature possibili – gli premeva mostrare «come questo processo lungo ed estenuante sia emotivamente sia legalmente si mangi la tua vita e te la rubi».

Nessun trionfalismo, è un atto di libertà ma anche un corpo a corpo con il fallimento, con le ombre della vita familiare. Pochi come il Bergman di “Scene da un matrimonio” le hanno rese così spesse, così tangibili. È un film del 1973, e fa scuola, anche nella sua affascinante verbosità. Divorzio alla svedese! Da noi, quello “all’italiana”, firmato Germi un decennio abbondante prima, fa dire a Moravia, sull’Espresso, che – più del tema coniugale – conta la polemica «accanita e beffarda che i settentrionali conducono si può dire dall’unità d’Italia contro i meridionali. Questa polemica consiste da una parte nel mettere in ridicolo usi e costumi dell’ex regno delle Due Sicilie e dall’altra, nel sognare che questi usi e costumi siano davvero ridicoli».

È l’atto di nascita della commedia all’italiana, si dice, non a caso tragicomico, tra corna, delitto d’onore, figli che «sono sempre figli». È un’Italia ancora lontana dalla legge sul divorzio, dal successivo referendum, dall’accesissimo dibattito sul sì e sul no, con tanto di spot melodrammatici. O imprevedibili: come quello che girò Ettore Scola con Gigi Proietti protagonista, virtuoso del “no”. Alla fine degli anni Ottanta, quando gira “La famiglia”, lo stesso Scola non potrà non mettere in scena, raccontando gli amori e i disamori, le tempeste di una grande tribù, anche gli affanni di una donna dopo il divorzio.

Tutti divorzisti, gli intellettuali? Quasi. C’era, sul fronte avverso, Pasolini, preoccupatissimo dal tratto edonista della corsa al divorzio, e sul punto di echeggiare, senza volerlo, le tirate moraliste di quel Tullio Conforti, imprenditore di successo interpretato nel 1966 da Alberto Sordi, in “Scusi, lei è favorevole o contrario?” Contrarissimo al divorzio, il pio Sordi/Conforti ha ovviamente i suoi scheletri adulterini nell’armadio.

E quando lo scrittore Giorgio Manganelli, pronto a mascherarsi da bastian contrario, attacca il divorzio si appella proprio alla segreta libertà dei fedifraghi matrimoniali. «Non conosco», scriveva, «migliore scuola di anarchia de
l matrimonio indissolubile. Pensate: in Italia, in questo Paese cauto ed arcaico, ci sono almeno due milioni di coppie irregolari: non è meraviglioso? Quattro milioni di persone che hanno sottratto alla stolta virtuosa coazione dello Stato il mondo degli affetti e dei privati diletti. Sono stati costretti a farlo, costretti a diventare liberi: si può immaginare qualcosa di più felicemente pedagogico?».

E si rammaricava, o fingeva di, per l’ombra gettata dalla legge del ’70 «su una delle istituzioni fondamentali del mondo occidentale, una delle poche rimaste pure e schiette: l’adulterio. Io ho grande stima dell’adulterio, questa oscura, catacombale commistione di desideri e di affetti». Difficile trovare una definizione più esatta della succosa materia emotiva da cui attingono letteratura e cinema. Fin troppo, verrebbe da dire, e non sempre con risultati esemplari. Anzi: se Raffaele La Capria proponeva a suo tempo una fenomenologia della scopata nella narrativa italiana, non si faticherebbe a elaborare una fenomenologia della crisi coniugale.

Una sorta di tic tardo-borghese ci ha riversato addosso nei decenni un quintale di saghe matrimoniali sull’orlo di crisi di nervi e divorzi, su carta e su grande schermo. E non sempre si tratta dei nipoti di Bergman o di Germi, di Sándor Márai, o di Abraham Yehoshua (bellissimo il suo “Un divorzio tardivo”); o di opere riuscite come “Eccomi” di Jonathan Safran Foer o come il divertito vademecum proposto in forma romanzesca da Diego De Silva nelle pagine di “Divorziare con stile”.

Spesso si tratta di chi, non sapendo cosa raccontare, sceglie una via facile, lasciando che personaggi incattiviti si urlino addosso di tutto. Più interessante e più potente l’introspezione - uno scavo nel silenzio - di “I giorni dell’abbandono”, il romanzo del 2002 di Elena Ferrante portato al cinema da Roberto Faenza. A cui pare agganciarsi e rispondere, oltre dieci anni dopo, “Lacci” di Domenico Starnone. La fine del matrimonio, le recriminazioni, i rimorsi.

Un divorzio a parole, più che su carta bollata. Quanto a Ferrante, nella saga di Lila e Lenù, divorziare è lo spazio di libertà e di liberazione che una donna può recuperare, una volta incastrata nel legame con uomini sbagliati, mediocri, violenti. «Sono cresciuta in un mondo in cui sembrava normale che gli uomini (padri, fratelli, fidanzati) avessero il diritto di picchiarti per correggerti, per educarti come donna, insomma perché volevano il tuo bene», ha raccontato l’autrice.

Lo sapeva bene una pioniera come Grazia Deledda che, a inizio Novecento, entrò con un romanzo nel già animatissimo dibattito sull’introduzione del divorzio. Si intitola “Dopo il divorzio”, l’ha ristampato di recente la benemerita casa editrice Studio Garamond, e ha per protagonista Giovanna, decisa a lasciarsi alle spalle un marito violento e un matrimonio disgraziato. Additata come moglie di due mariti, Giovanna difende il proprio azzardo: «E andate a farvi benedire, allora, se non comprendete la ragione! Vivere bisogna, sì o no? E quando non si può vivere, quando si è poveri come Giobbe? Quando non si ha lavoro, non si ha nulla, nulla, nulla? Ma ditemi voi, zia Porredda, e se in me fosse stata un’altra donna? E se non ci fosse stato il divorzio? Ebbene, che sarebbe accaduto? Il peccato mortale; sì, allora sarebbe accaduto il peccato mortale!».