Ex avvocato, nipote di un gerarca di Hitler, lo scrittore tedesco ha scalato le classifiche raccontando omicidi brutali. Ma assicura: «Nella vita e nei libri difendo la normalità: l'odio nazista non lo giustificherei mai»

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In giacca di tweed, Ferdinand von Schirach sorseggia un caffè e si fuma l’ennesima sigaretta. Ci incontriamo davanti a uno dei bar più frequentati (almeno prima del virus) di Charlottenburg, il quartiere dove lui vive e un tempo aveva il suo studio di avvocato. Non è un caso che il suo libro più personale, in cui racconta anche delle sue depressioni, si intitoli “Kaffe und Zigaretten” (di prossima uscita da Neri Pozza ): caffè e sigaretta, i due vizi di una delle voci più suggestive della letteratura tedesca contemporanea. Basti dire che la sua recente opera teatrale “Gott”, Dio, sul tema del fine vita, è da settimane fra i bestseller e, trasmessa in tv, ha incollato allo schermo 4 milioni di telespettatori.

«Nonostante il successo, la paura di fallire è sempre presente in me e condiziona la mia letteratura. Dipenderà dalla mia avversione per ogni inutile sfarzo del linguaggio», inizia a dire. Anche per questo von Schirach, nipote di Baldur von Schirach - che fu a capo della “Hitler Jugend”- non si sente un autore di thriller. «Non scrivo thriller, ma studi sulle derive di persone che, sino a un certo punto, definiremmo normali. Per ogni avvocato difensore non è la normalità, sono le eccezioni della vita che contano».

In effetti, i suoi bestseller - da “Il caso Collini” sino a “Castigo”, già pubblicato da Neri Pozza - hanno uno stile asciuttissimo. Nessuna empatia per le vittime. Gli omicidi più brutali sintetizzati in quattro righe. Tra l’altro, oltre a nicotina e caffeina, c’è anche l’insonnia a disturbarlo. «Non sono scrittore perché soffro di insonnia», dice: «Ma in effetti ho iniziato a scrivere perché di notte non avevo nulla da fare. Oggi però lavoro, con disciplina, tutti i giorni dalle 9 alle 13».

Prima di dedicarsi alla letteratura, von Schirach, rampollo di una famiglia aristocratica con radici americane (i suoi avi fabbricavano locomotive a Filadelfia ), è stato fra gli avvocati più brillanti di Berlino. Anche se la sua passione per la giurisprudenza ha origini a dir poco spurie. «Ho studiato dai gesuiti in un collegio della Foresta Nera. Lì ho iniziato a scrivere drammi e poesie, ma sono subito stato colto dall’ansia di fallire. La depressione mi ha portato a 18 anni a studiare legge. Per venti anni sono stato un avvocato famoso, da undici scrivo perché la letteratura è il senso della mia vita e mi dà sicurezza».

Inutile chiedere a uno che si scopre scrittore dopo aver difeso per decenni criminali vari se i suoi racconti si ispirano più a Manuel Vázquez Montalbán o magari a Camilleri. «Mi dispiace deluderla, non li ho mai letti. Se inizi a scrivere a 20 anni ti ispiri a Kafka o a Mann, ma io ho iniziato a 45 anni e per me era importante raccontare i reati e i processi nel modo più essenziale possibile. Che è poi la cosa più complessa e il contrario di ciò che ti insegnano a scuola o i nostri ampollosi filosofi tedeschi».

Se c’è una tradizione che questo elegante ex-avvocato non sopporta è infatti quella dell’ idealismo tedesco, la famosa triade Fichte, Schelling ed Hegel. Della ontologia di Heidegger, poi, meglio non parlargli. «Ho un rifiuto endemico dello stile criptico di un Hegel, figuriamoci della presunta complessità di Heidegger, per il quale una filosofia comprensibile non è degna d’esser letta! Per me vale la lezione degli inglesi, da Hobbes a Hume sino a Dworkin, i cui testi sono profondi ma leggibili come romanzi». Il raffinato scrittore-avvocato finisce persino per adombrarsi a sentire il nome di Carl Schmitt - il giurista di Hitler - o i romanzi tempestosi dell’ufficiale Ernst Jünger.

È il suo odio viscerale per la retorica del nazionalismo, per l’ideologia razzista che infuriò in Germania nei dodici anni del nazismo che lo hanno portato allo stile così laconico, e un po’ freddo dei suoi thriller. «La lingua tedesca è stata distrutta, oltre che da un certo idealismo, da anni di propaganda nazista», dice. «I libri di Jünger per me sono puro kitsch, per giunta senza ironia. E Schmitt è uno che nel ’34 pubblicò “Il Führer protegge la legge” dopo il massacro ordinato da Hitler delle SA».

È questo tetro passato tedesco, che non passa neanche nel ventunesimo secolo, e la sua accesa allergia contro ogni boria idealistica, a rendere così avvincenti, e originali, le storie criminali raccontate da von Schirach. I racconti raccolti in “Castigo”, ad esempio, tematizzano le difficoltà in tribunale di ogni giudizio, le aporie di ogni sentenza. «Nei miei libri è in gioco il perché qualcuno ha fatto qualcosa. Le mie storie riguardano non solo chi è l’assassino, ma ogni lettore. Chi siamo noi uomini per giungere a tanto?».

In fondo, da Omero a Jonathan Franzen è questa la scomoda domanda che la letteratura ci pone con le sue storie di lacrime e sangue. Anche il bravo avvocato però perlustra a suo modo, per scagionare il suo assistito, le zone più buie dell’animo umano. « Ciò non vuole dire giustificare i reati del criminale, ma l’avvocato deve comprenderne i motivi per difenderlo in tribunale. E alla fine ognuno di noi giudica in un altro modo una volta compresi i motivi di un crimine».

Quando ancora esercitava la professione forense, ad esempio, ha difeso anche Günther Schabowski, ex ministro della ex Ddr. Ma suo nonno Baldur von Schirach, il nazista responsabile della deportazione di 180mila ebrei austriaci, l’avrebbe mai difeso? «No, mi rifiuterei di farlo e non solo per il nome che porto», risponde secco.«Nei miei libri racconto di persone che, all’improvviso, compiono atti di follia. I crimini commessi da mio nonno furono concepiti a tavolino, perpetrati secondo piani sistematici».

Ma la cosa più orrida dei criminali nazisti è l’incapacità di ammettere sia l’atrocità dei loro atti che la necessità del castigo. Sulla sua tomba Baldur von Schirach ha voluto che si scrivesse: “Ich war einer von euch“, sono stato uno di voi. « Al Processo di Norimberga mio nonno ammise delle colpe», ricorda von Schirach, «ma non si scusò mai per i suoi crimini. Quella autoassoluzione sulla lapide è il colmo dell’irresponsabilità. Per questo non l’avrei mai difeso». Un ultimo, tristissimo motivo per il quale nei suoi thriller i misfatti si raccontano a pathos zero, con la fiamma della letteratura e speranza al minimo.

Nei romanzoni dell’Ottocento, in “Delitto e castigo”, per sempio, il reo Raskol’nikov si pente, e Dostoevskij ci fa sperare nella salvezza morale di chi ha sbagliato, e nella sua accettazione del “giusto castigo”. «Questa è letteratura», conclude von Schirach. «E quella di Dostoevskij è la più bella che sia mai stata scritta sui delitti e sulle pene. Ma se ora entrassimo in carcere e chiedessimo ai detenuti perché scontano la loro pena, ognuno si direbbe innocente e ingiustamente condannato. Come mio nonno e Albert Speer». Anche l’ex “architetto di Hitler” uscì dal carcere di Spandau, a Berlino, nel 1966. Pure lui, come Baldur von Schirach, con l’ostinata presunzione di sentirsi innocente.