«Ezio Bosso riusciva a farti ascoltare cosa sentiva Beethoven». Il ricordo dei suoi musicisti
Lo studio. La passione. La malattia. E il bisogno di restituire alla musica quello che la musica gli aveva dato. Il compositore recentemente scomparso nelle parole affettuose della sua vera famiglia: quella degli orchestrali che hanno lavorato con lui
Ezio Bosso l’ho incontrato un pugno di volte in vita mia, ma non me lo dimenticherò mai. Chi ha avuto la fortuna di conoscerlo meglio sono i musicisti della sua Europe Philharmonic Orchestra, ed è giusto che siano loro a ricordare il maestro scomparso il 15 maggio. David Romano, primo dei secondi violini dell’Orchestra Accademia Nazionale di Santa Cecilia, è stato sotto la direzione di Ezio Bosso il primo violino di questo ensemble nato dall’idea del Maestro di raccogliere elementi da tutto il continente e che per suo volere faceva precedere i concerti da prove aperte al pubblico. «Con Ezio ci siamo conosciuti nel 1995. Se ne andava in giro per Roma con la sua eleganza un po’ punk, e suonava il contrabbasso in modo davvero straordinario. La nostra collaborazione nacque in occasione di un tour in Spagna e subito diventammo amici. Quando si stancò di suonare il suo strumento iniziò a comporre, e com’è noto diversi registi hanno poi deciso di usare i suoi brani per le colonne sonore dei loro film. Noi per un po’ ci perdemmo di vista. Quindi venni a sapere della malattia. E dal 2013 fino a pochi giorni fa abbiamo avuto un rapporto professionale e umano pressoché quotidiano, suonando in trio e con l’orchestra».
Fu a Villa Pennisi in Musica, la manifestazione siciliana diretta da David Romano, che Ezio Bosso diresse il suo primo concerto per intero dopo la malattia. «Ezio ad Acireale ha non solo diretto ma anche insegnato ai giovani studenti della nostra scuola estiva. Ha sempre avuto un’enorme cura per il ruolo degli strumenti ad arco, e nel momento in cui decise di affrontare da direttore un repertorio più vasto cominciò a cercare con i suoi amici giovani musicisti in giro per l’Europa. Ezio di amici ne aveva tantissimi. E sul lavoro sapeva essere primus inter pares: lui era il Maestro che teneva le fila dell’orchestra, ma in questo non aveva mai un atteggiamento autoritario. Nel suo modo di dirigere c’era sempre un rapporto di scambio, la possibilità di un confronto. Noi musicisti sapevamo di avere a che fare non solo con un direttore ma anche con un compositore, e per me era molto emozionante lavorare con lui. Tuttavia lui non amava suonare la sua musica. Era una persona a cui interessava davvero conoscere, esplorare, studiare. Non si stancava mai di farlo».
Com’era Ezio Bosso sul palco? «Si trasformava, letteralmente. Non so dove trovasse tutta l’energia che metteva ogni volta, non solo nei concerti ma anche nelle prove. Sapendo perfettamente ogni volta che quello a cui stava lavorando poteva essere l’ultimo concerto. In occasione di un tour con l’orchestra in Puglia, nel settembre dello scorso anno, avevamo in programma musiche di Mendelssohn, Schubert e Beethoven. Con l’ultimo movimento della Quinta Sinfonia di Beethoven, Ezio completava a modo suo l’Incompiuta di Schubert. Ma non pago, al termine del programma ci fece suonare anche l’ultimo movimento della Settima di Beethoven. Noi musicisti alla fine di quei concerti eravamo esausti. Lui invece era fresco come una rosa: lo so perché ero io a metterlo sulla sedia a rotelle quando scendeva dal podio. Non ho idea di come facesse, ma so che noi con lui davamo il trecento per cento. Dopodiché, ci si ritrovava a bere una birra nei camerini».
Come ha vissuto Ezio Bosso le settimane di quarantena? «Continuando a studiare. Ancora il 18 aprile mi ha mandato un brano a cui stava lavorando. Lui sapeva di non avere tanto tempo davanti a sé. Ma diceva che per un musicista il rapporto col tempo era diverso: lo si poteva dilatare, perfino fermare. Mi è rimasto impresso il concerto al Conservatorio di Milano dello scorso gennaio, in cui aveva voluto suonare le Metamorfosi e il Concerto per oboe di Strauss e l’Eroica di Beethoven. Ezio sapeva che Strauss era uno dei compositori che più avevano amato Beethoven, e lui a sua volta amava più di ogni altro il vecchio Ludwig van. Ebbene: lui aveva la capacità di rendere semplice perfino Beethoven. Sapeva spiegartelo trasmettendoti concetti complessi in modo unico. In quell’occasione ha saputo interpretare quelle composizioni in maniera incredibile. Permettendo tra l’altro al pubblico di assistere alle prove, prove che erano ciascuna un concerto vero e proprio. La musica è una cosa che fa bene, sosteneva, e tutti dovrebbero poterne fruire. Ma Ezio amava anche giocare. Prima di salire sul palco non a caso ci diceva: divertiamoci».
Per Giorgio Galvan, primo contrabbasso dell’Orchestra da Camera di Mantova, Ezio Bosso è stato innanzitutto una scoperta. «Io sono arrivato al contrabbasso per sbaglio, prima ero chitarrista. Un giorno un amico mi ha regalato un cd in cui Ezio suonava. E lì è scattato l’amore. Per anni per me è rimasto come un personaggio leggendario. Ne sentivo continuamente parlare, talvolta succedeva che suonassimo a distanza di poche settimane o di pochi giorni negli stessi posti, senza incontrarci mai. Poi è venuto a dirigere l’Incompiuta di Schubert a Mantova per Trame Sonore, e infine ci siamo conosciuti. Per me si è trattato di amore a prima vista. Avevo suonato per anni con Abbado nella sua Orchestra Mozart, e quando ho cominciato a lavorare con Ezio ho capito quanto fosse preparato. Lo era a livelli pazzeschi. Era uno studioso puro, vero. In un’orchestra siamo tante teste ed è inevitabile avere idee diverse, ma quando ti ritrovi di fronte una persona che ha studiato sul serio, che è così motivata e che ha una memoria incredibile, come prima avevo visto solo il Lorin Maazel, beh, capisci che ti trovi davanti a un condottiero, e ti fidi di lui. Ezio ricordava ogni singola nota: ogni minimo passaggio lui lo conosceva a fondo, non lo trovavi mai impreparato. Era il direttore d’orchestra ideale. Noi tutti che facciamo questo mestiere studiamo tantissimo, sempre, e di lui avevamo un enorme rispetto perché vedevamo quanto rispetto avesse per il nostro lavoro. Lui credeva nel confronto con i suoi musicisti, una cosa rarissima per un direttore. E poteva succedere che si discutesse, anche animatamente. Poi però si andava a bere una birra assieme».
Com’era suonare nella sua orchestra? «L’orchestra creata da Ezio si fondava su una alchimia speciale, che si accresceva giorno dopo giorno. Eravamo tutti affini: non era come timbrare il cartellino, non era solo lavoro. Noi con lui e grazie a lui vivevamo ciò che stavamo facendo, vivevamo la musica. E anche se in tournée ripetevamo ogni sera lo stesso programma, ogni sera veniva fuori qualcosa di diverso, perché lui continuava a studiare e approfondire. Aveva un entusiasmo inimmaginabile. Non averlo più tra noi sarà un peso enorme non solo per l’orchestra ma per tutto il mondo della musica. Ha progettato fino all’ultimo, e io al di là del dolore sono molto arrabbiato. Non c’è stato il tempo di cui avremmo avuto bisogno per fare tutte le cose che aveva in mente. Ora lo hanno ricordato anche in Senato, ma avrebbero dovuto pensarci prima, dargli la possibilità di portare avanti i suoi progetti. Ma Ezio era uno vero, senza filtri. E da un certo punto di vista questa è una cosa che non aiuta».
Francesco Di Rosa, primo oboe solista alla Scala sotto la direzione di Riccardo Muti e Daniel Barenboim, dice che Ezio Bosso era una persona speciale. «Non trovo altre parole. Con lui era speciale tutto. Solo ora sto capendo quanto sono stato fortunato quattro anni fa a incontrarlo e ad avere la sua amicizia. Ezio aveva il grande dono della comunicazione, e un’empatia straordinaria: era sempre profondo, anche con poche parole. Colpiva sempre nel segno, usava le frasi giuste per avvicinare le persone a un’arte che era la sua vita. Sinceramente non ho mai incontrato nessuno così innamorato della musica: un amore vero, profondo, fatto di cura e di rispetto. Ezio era generoso e preparatissimo, sapeva raccontarci perfino lo stato d’animo del compositore quando aveva scritto un brano e si poneva con umiltà al cospetto dei grandi geni che amava: Beethoven, Mozart, Tchaikovsky. Lui aveva trovato la forza che aveva nella musica e si sentiva in debito nei suoi confronti, così cercava di farla conoscere a tutti. Era il suo modo di contraccambiarla. Credeva nella musica e desiderava farla conoscere senza scendere a compromessi commerciali. Il suo non era l’abituale pubblico della classica, ma un pubblico di appassionati. Un pubblico che lui aveva saputo rinnovare, persone che non avrebbero mai messo piede in una sala per ascoltare le Metamorfosi di Strauss e che invece lo facevano perché era lui a dirigere». E l’esperienza sanremese? «A dire la verità gli pesava un po’. Gli dispiaceva essere arrivato al grande pubblico come fenomeno pop. Ma se n’è andato da grande direttore d’orchestra».
Anna Kuk, violinista diplomata all’Accademia di Katowice, ha conosciuto Ezio Bosso dopo che lui le aveva chiesto di partecipare al progetto Che storia è la musica. «Lui sapeva che avevo suonato con l’Orchestra Europea Giovanile, e quando l’ho incontrato è stato come dite voi in Italia un vero colpo di fulmine. Di lui mi piaceva soprattutto la sua umanità, e non succede spesso nella vita di un musicista. Lui parlava di musica, non di forma o di struttura. Noi musicisti classici pensiamo che le persone non abbiamo idea della forma della nostra musica e crediamo che per questo non la capiscano, e invece è sbagliato: Ezio sapeva far venire a galla le emozioni che sono all’interno della musica classica, e aveva il dono di spiegare tutto allo stesso tempo con grande profondità e grande semplicità. Poi sono stata a Todi per suonare con lui lo Stabat Mater di Rossini e durante una pausa mi ha chiesto in inglese, una lingua che amava parlare, se volevo far parte di quella che lui chiamava la sua famiglia, la sua orchestra. Ero felice. Ho partecipato ogni volta che potevo spostandomi dalla Polonia. Per Ezio la cosa più importante era il rapporto con il pubblico, che con lui sul podio diventava intimo, nonostante spesso si trattasse di un pubblico foltissimo. Anche mentre suonavamo, ogni volta che lui ci guardava si veniva a creare una grande intimità. Una volta mi ha detto: noi siamo una grande famiglia, ma la musica non ci appartiene. Siamo noi che apparteniamo alla musica. E lui apparteneva alla nostra orchestra. Ora ci sentiamo come una famiglia abbandonata, ma lo spirito che lui ci ha trasmesso rimane. Abbiamo la responsabilità di trasmetterlo a nostra volta come lui lo ha trasmesso a noi. Anche nella vita di tutti i giorni». C’è una parola che riassuma questo spirito? «Sincerità». Ciao Ezio, ci mancherai.